Urbis Romae in pillole, dal Tardo Impero a oggi.
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Premessa I
“Non è del tutto chiaro quando nel mondo nordico si cominciò ad avere notizia di Roma, ma già nel
113 a.C. i popoli germani Cimbri e Teutoni, partendo dai territori scandinavi, entrarono nelle regioni danubiane, continuando quel lungo processo di invasioni/migrazioni nel territorio romano da parte di popoli extra-romani. D'altra parte Roma già brulicava di Galli, Greci, Arabi, Africani, essendo il Mar Mediterraneo il centro geografico e vero crocevia dell'Impero, un Impero vastissimo che si estendeva su tre continenti.
Dal III al V Secolo il rapporto dei popoli germanici con Roma si può riassumere come una alternanza di conflitti feroci e integrazioni pacifiche. Non era facile accedere liberamente all’impero: le truppe stabilite lungo il confine avevano il compito di controllare l’ingresso di uomini e merci; tuttavia, entrare o uscire dall’impero non era né impossibile né vietato. Quindi, una forma di immigrazione clandestina verso l’impero era sempre esistita e, oltre tutto, ci sono diverse testimonianze di fenomeni di discriminazione soprattutto all’interno della città.” (A. Iannucci)
Un importante provvedimento preso durante il regno di Caracalla (inizio III Sec. d.C.) fu l'emanazione dell'editto noto come Constitutio Antoniniana, che concedeva la cittadinanza a tutti gli abitanti dell'Impero di condizione libera (non schiavi).
Anche nell'antichità con la parola generazione si indicava l'arco di tempo tra la nascita dei genitori e la nascita dei loro figli. In questo senso la durata di una generazione era calcolata intorno ai 20-25 anni. Questo ci dice che nel III Secolo d.C., gli individui liberi di origine extra-romana che circolavano nella penisola e nell'Urbe potevano essere teoricamente ben integrati: i Galli
erano alla sedicesima generazione; i mediorientali e i nordafricani erano alla ottava generazione; Greci, Persiani e Macedoni erano alla diciottesima generazione; gli Iberici erano alla sedicesima generazione; i Britannici/Celti
erano alla decima generazione; i Goti erano alla terza generazione. Considerando che le unioni fra uomini e donne di etnia diversa non erano improbabili, possiamo pensare che l'Italia romana del III secolo avesse un curioso melange di abitanti.
Premessa II
“Sulla base di rinvenimenti catastali, a Roma sotto l'imperatore Settimio Severo (II-III Sec. d.C.) la popolazione era di circa 800.000 - 1.000.000 abitanti (la cifra è ancora dibattuta) su 2000 ettari di superficie; le insulae erano pertanto 46.602 contro 1797 domus. Le prime erano dimora dei plebei, mentre le seconde erano abitate dai patrizi. In pratica le insulae costituiscono il “condominio” della Roma antica: nella forma più tipica erano palazzi a pianta quadrangolare, con cortile interno (cavedio) talvolta porticato, sul quale erano posti i corridoi di accesso alle varie unità abitative, dette cenacula, tecnicamente veri e propri "appartamenti". In questi edifici il piano terra era solitamente destinato a botteghe di vario genere (tabernae), dotate di un soppalco adibito a deposito di materiali e/o alloggio degli artigiani più poveri; ai piani superiori si trovavano gli alloggi, che diventavano meno pregiati man mano che si saliva verso il tetto. Le unità abitative andavano tipicamente da tre a dieci stanze, delle quali una di solito era di dimensioni maggiori e in posizione migliore rispetto alle altre. Il primo piano, solitamente, ospitava i cenacula di maggior pregio, spesso serviti da una balconata lignea o in muratura, poggiata su mensole, che percorreva l'intero affaccio stradale. Le sistemazioni si facevano più spartane e precarie ai piani superiori, fino ad arrivare al sottotetto, dove si pativa freddo d'inverno e caldo d'estate, oltre a stillicidi d'acqua durante le precipitazioni. Il prospetto a mattoni, in genere, non veniva intonacato, ma si poteva comunque riscontrare un effetto visivo policromo per via dell'uso di laterizi di colori e tonalità diverse per i vari elementi architettonici. I solai e le coperture erano spesso sostenute da volte, che garantivano maggiore stabilità. Nel complesso mancavano i servizi igienici, essendo notoriamente usate a tale scopo le latrine pubbliche e le terme”. (Angela) NInsula dell'Aracoeli
Cronologia
III-IV Sec. Forte epidemia di peste (peste di Cipriano) dal 250 al 270 circa.
Costruzione delle Mura Aureliane (270-275) a protezione della città.
Crisi sistemica, religiosa e politica dell'Impero, forte denatalità, iperinflazione,
insostenibile pressione fiscale, desertificazione degli agri, emigrazione.
Roma perde la sua importanza politica a favore di Costantinopoli.
Popolaz. Urbe ≃ 800.000 – Italia 10.000.000 – Europa 40.000.000 (fine IV Secolo)
Durante il I e II Secolo l'opera (e sovente il martirio) dei predicatori cristiani, unita ad una crisi del culto politeista greco-romano, vide la progressiva affermazione del Cristianesimo nel territorio imperiale. “Gli strati più poveri del popolo e parte del patriziato romano avevano, in parte, già da tempo abbandonato il culto per le antiche divinità romane, legate spesso ad un potere corrotto e oppressivo e, non a caso, già da tempo si era affermato a Roma e nelle province dell'Impero il culto di Mitra, divinità solare proveniente dall'Oriente, la cui diffusione è testimoniata dai numerosi mitrei rinvenuti nei siti archeologici romani. Diverso fu l’atteggiamento politico verso il Cristianesimo che, anche per i suoi valori di uguaglianza, rappresentava una minaccia al sistema: per questo, sin dall'inizio, i suoi seguaci furono perseguitati e martirizzati; ma essi, benché costretti a riunirsi per i loro riti e funzioni in luoghi segreti, nell'arco di due Secoli accrebbero di numero e d'influenza sulla vita cittadina.” (Cathopedia)
“La peste di Cipriano, che seguì di un secolo la peste antonina, fu una pandemia che colpì l'impero romano dal 249 al 262 circa o al più tardi fino al 270. Si pensa che essa abbia causato diffuse carenze di manodopera per l'agricoltura e per l'esercito romano, indebolendo gravemente l'impero durante la crisi del terzo secolo. Non sono arrivati a noi dati precisi. Lo storico William Hardy McNeill ipotizza che sia la precedente peste antonina (166–180) che la peste di Cipriano siano state i primi salti di specie all'umanità di due diverse malattie da ospiti animali, una di vaiolo e una di morbillo, non necessariamente in questo ordine.” (Wiki)
Nel III e IV Secolo la tolleranza verso la nuova religione di tre Imperatori, Galerio, Costantino e Teodosio, e la conversione di gran parte della popolazione, barbari compresi, porterà ad un lento abbandono dei riti pagani e alla chiusura dei vecchi luoghi sacri, non senza aver assistito ad episodi di saccheggio e distruzione da parte dei Cristiani più fanatici.
“Gli editti pubblicati tendevano a condannare il paganesimo come religio illecita e quindi ad eliminarlo lavorando su due fronti: da una parte l’assoluto divieto dei sacrifici e delle altre forme di culto, con pene che oscillavano dalle sanzioni pecuniarie all’esilio fino alla condanna a morte (a seconda dei vari imperatori); dall’altra la chiusura, la confisca e, in molti casi, la distruzione dei templi. I pagani reagirono in vario modo; in principio con la violenza, ma poco a poco, vedendo che i cristianissimi imperatori erano decisi ad utilizzare i templi da cui avevano tolto i segni della superstizione, gli stessi pagani si rassegnarono all’evidenza e fecero di tutto per salvare le statue degli dei. Teodosio II nel novembre del 435 ordinerà che, se c’è ancora un solo tempio rurale non distrutto, sia trasformato in chiesa cristiana. I Padri della Chiesa riconoscevano nella religione pagana l’opera demoniaca e di conseguenza le sue divinità erano paragonate ai demoni che inducono l’umanità nel peccato. La conseguenza di tale posizione fu il riconoscimento come luoghi infestati dal demonio dei templi e di tutti gli ambienti, anche naturali, in cui si fosse svolto un qualche rito pagano. Questi luoghi, dopo essere stati purificati, potevano accogliere un edificio cristiano. Dobbiamo tenere presente, però, che a Roma la situazione risultava ben più complessa e problematica, in quanto la posizione imperiale era fortemente osteggiata dal senato che, ancora abbarbicato agli antichi dei, portò avanti una lunga e tenace resistenza.” (Lonardo)
“Il 313 è un anno cruciale, per la storia della Chiesa e per la storia d’Europa. Alcune scelte politiche di Costantino danno inizio alla lenta e inesorabile trasformazione dell’Impero da pagano a cristiano.
Il cristianesimo è ormai religio licita, religione praticabile, con il diritto di costruire edifici di culto. La prima è la basilica Salvatoris, l’odierna cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano: un cantiere enorme, per la cui costruzione Costantino smantella la caserma degli equites singulares, i militari che a ponte Milvio si erano sciaguratamente schierati al fianco di Massenzio.
A Roma la basilica Salvatoris non rimane isolata: al nome di Costantino e al suo finanziamento, in due casi anche di suoi strettissimi familiari, è legata la costruzione di ben altre 9 basiliche cristiane: dopo aver dotato Roma di uno spazio per il culto (la basilica Salvatoris), Costantino decide di monumentalizzare le più importanti mete devozionali cristiane, costruendo le basiliche sopra le tomba di San Pietro in Vaticano e sopra la tomba di San Paolo lungo la via Ostiense; poi offre alla comunità cristiana nuovi spazi funerari e costruisce ben 6 basiliche circiformi - cioè con una pianta a forma di circo - in corrispondenza di importanti catacombe (sono queste la basilica di san Lorenzo lungo la via Tiburtina, la basilica Apostolorum lungo la via Appia, la basilica dei Santi Pietro e Marcellino lungo la via Labicana, la basilica anonima di via Prenestina, la basilica di papa Marco lungo la via Ardeatina e la basilica di Sant’Agnese lungo la via Nomentana); infine, attraverso la madre Elena, adatta una parte del suo palazzo di residenza a scrigno per le reliquie portate dalla Terra Santa (la basilica Hierusalem, odierna Santa Croce in Gerusalemme).
Sono cantieri imponenti, per la maggior parte dei quali Costantino mette a disposizione terreni suoi o di familiari. Sono corpi di fabbrica nei quali investe migliaia di sesterzi per l’intera durata del suo regno. Nessuna di queste basiliche però invade il centro monumentale di Roma. Nessuna è nemmeno nelle vicinanze dei luoghi di riferimento politico e amministrativo dell’Impero. Anche le due dentro le mura sono marginali. E tutte le altre sono fuori dalle mura, in zone periferiche della città, ma sempre lungo i principali assi viari.
Le basiliche sono defilate e non turbano la popolazione ancora pagana, ma – e qui c’è tutta l’ambiguità di Costantino – circondano Roma e rispondono al preciso progetto politico di integrare la Chiesa nella vita dello Stato romano.” (Papi)
Il modello di edificio che per i Romani era sede soltanto di affari e di giustizia civile, si afferma come una delle massime espressioni della nuova era cristiana. Di solito è a tre navate, la centrale delle quali è rialzata e dotata di ampie finestre. L'ingresso si trova su un lato minore dell'edificio, opposto all'abside; lo spazio come detto viene diviso in navate da esili muri sorretti da file di colonne, spesso di reimpiego, architravate o che sorreggono archi a tutto sesto. Ai lati dell'abside inizialmente vennero ricavati due locali di servizio, i pastoforia, e successivamente si diffonde l'uso di affiancare absidi minori a quella principale; il numero di navate va da tre a cinque, mentre generalmente non veniva realizzato alcun transetto. Il soffitto è piano o a capriate in legno a vista; le murature molto esili precludono la possibilità di impiegare volte in muratura.
“Dunque i fondatori di chiese evitavano inizialmente di utilizzare non solo i templi, ma anche le aree sacre dove in precedenza sorgeva un tempio pure se questo era già in rovina; la credenza che gli spiriti maligni si aggirassero nei dintorni dei templi era un forte deterrente. Le costruzioni templari, non più soggetti ad operazioni per la manutenzione, andarono in rovina e, privi di controllo, venivano saccheggiati di tutto il materiale riutilizzabile. Scamparono alla distruzione solo i pochi templi che vennero convertiti in chiese: il riutilizzo dell’intero monumento determinò in questi casi l’eccezionale conservazione delle strutture antiche.” (Lonardo)
“Nel 330 Costantino fonda Costantinopoli, che diventa la nuova capitale dell'Impero, e la abbellisce sottraendo numerosi capolavori d'arte greco-romana a diverse città, fra cui Roma. È la prima di una lunga serie di razzie di pezzi di monumenti classici che verranno perpetrate ai danni della città per costruire edifici cristiani in ogni parte d'Europa.” (Thomas)
“Nella nuova capitale sul Bosforo venne trasportato anche il Palladio, la statua già protettrice di Troia e poi di Roma, tradizionalmente portatavi da Enea, che venne seppellita al centro del foro della nuova città, sotto la Colonna di Costantino. Vennero individuate sette alture a ricalcare i sette colli dell'antica capitale e la città venne divisa come Roma in quattordici regiones. Come per Roma venne posto un cippo per indicare il centro dell'Impero, la prima pietra miliare da cui misurare tutte le distanze, il Milion. Il grandioso complesso dei Palazzi Imperiali venne eretto all'estremità della penisola, accanto al grande circo e al foro dell'Augustaion, ricalcando il modello romano del Foro-Palatino-Circo Massimo. Nel foro venne edificata l'aula destinata al Senato. Il nuovo elemento venne introdotto dalla presenza di una chiesa, la basilica di Santa Sofia, cioè della Divina Sapienza, mentre non fu costruito alcun Colosseo poiché gli spettacoli tra gladiatori erano considerati contrari alla mentalità cristiana.” (Wiki)
“Fin dall'età repubblicana con il termine foederati o foederatae civitates si indicavano i popoli o le città legate a Roma da un trattato denominato foedus. I rapporti con gli alleati esteri erano di due tipi: foedus aequum: nel caso di legami con città con cui non si era entrati in guerra, o che la guerra non avesse prodotto una vittoria; foedus iniquum: nel caso di alleanza dovuta a sconfitta, nel qual caso dovevano accordare ogni richiesta venisse da Roma.
I foederati avevano il diritto di dissodare e coltivare la terra incolta entro i confini dell'impero e ne potevano godere i frutti a patto di difendere le terre dove si erano insediati. Tale trattato lasciava liberi i popoli che stipulavano l'accordo, obbligandoli solo a fornire milizie ausiliarie e a non concludere alleanze con altri popoli. I soldati provenienti dai socii esteri non facevano parte dei legionari, ma di forze ausiliare dotate di armi leggere. Inizialmente, il tributo romano prendeva la forma di denaro o cibo, ma con il diminuire delle entrate fiscali nel IV e V secolo, i foederati venivano ricompensati con la proprietà del territorio locale, il che equivaleva al permesso di insediarsi sul territorio romano.” (Wiki)
“Nel IV Secolo acquista grande rilevanza l'assimilazione e la piena integrazione del popolo germanico dei Goti alla cultura romana: essi diventano soldati (o contadini) romani a tutti gli effetti, garantiscono fedeltà all’impero, si convertono al cattolicesimo e seguono la disciplina romana. In questo processo l’esercito rappresenta la struttura maggiormente in grado di gestire questa forma di integrazione perché assorbiva i barbari e li trasformava nei veterani romani che erano il vero pilastro dell’impero.” (A. Iannucci)
“A partire dal IV secolo (dopo l'editto di Milano) la Diocesi di Roma divenne proprietaria di immobili e terreni, frutto delle donazioni dei fedeli. Il patrimonio terriero del vescovo di Roma era denominato Patrimonium Sancti Petri perché le donazioni erano indirizzate ai santi Pietro e Paolo. Già nel V Secolo la Chiesa gestiva forse la più grande proprietà terriera del mondo latino.” (Wiki)
N Mura Aureliane, Mausoleo di santa Costanza, Basilica di Santo Stefano Rotondo, Catacombe.
V Sec. Chiusura dei templi pagani. Costruzione di nuove chiese, monasteri e xenodochia.
403 Ristrutturazione delle Mura Aureliane (alzate da 6 a 8 metri e da 14 a 18 porte)
408-410 Sacco di Alarico-Visigoti, carestia
411 Inondazione del Tevere.
422 Epidemia
443 Terremoto molto forte
455 Sacco di Genserico-Vandali, la popolazione è risparmiata
472 Sacco di Ricimero-Burgundi-Ostrogoti
476 Terremoto
Popolazione ipotizzata a metà del V Secolo 250-500.000
“All'inizio del V secolo (circa 130 anni dopo la costruzione delle Mura Aureliane), si affacciò nella penisola una nuova minaccia, i Goti di Alarico.
La cinta muraria necessitava di una profonda ristrutturazione, non solo per gli inevitabili danni del tempo, ma anche per le diverse possibilità poliorcetiche a disposizione dei nemici e per le mutate condizioni interne dello Stato e della città di Roma in particolare: l'esercito era molto più debole e numericamente scarso e le armi più limitate. Occorreva innalzare le mura per offrire un ostacolo maggiore al nemico, aumentare le feritoie per rimediare alla carenza di baliste, limitare le porte, modificare l'assetto e la struttura difensiva di quelle che rimanevano e chiudere quasi tutte le uscite secondarie. Il fossato, poi, non esisteva più.
Si trattò dell'intervento più incisivo operato sulle Mura Aureliane, e risale all'imperatore Onorio o, per maggior precisione, al suo magister militum, il generale Stilicone: in un paio di anni intorno al 403 l'altezza delle mura fu quasi raddoppiata (dai 6-8 metri ad almeno 10,50-15) creando un doppio camminamento, uno inferiore (quello precedente, che diventa così coperto, con feritoie per gli arcieri) e uno superiore, scoperto e circondato da merlature. Anche le torri furono rinforzate con un secondo piano e molte porte vennero ristrutturate.” (Wiki)
Nella sua storia Roma era stata saccheggiata una sola volta, otto Secoli prima, dai Galli di Brenno; ma era una Repubblica giovane e la città era molto più piccola e difesa dalle Mura Serviane.
“Gli edifici senz'altro più colpiti durante il sacco di Alarico (410) furono il palazzo dei Valerii sul Celio e le ville padronali sull'Aventino, che furono incendiate; le terme di Decio furono gravemente danneggiate, e il tempio di Giunone regina fu distrutto. Le statue del Foro furono spogliate, la curia Iulia, sede del Senato, data alle fiamme e la stessa augusta Galla Placidia venne presa in ostaggio da Alarico. Ciononostante, Roma incuteva rispetto agli invasori e nei tre giorni di saccheggio Alarico impartì l'ordine di risparmiare i luoghi di culto cristiani (soprattutto la basilica di San Pietro), che considerò come luoghi di asilo inviolabili dove non poteva essere ucciso nessuno”. (wiki)
“Abbiamo una relativa ricchezza di informazioni sulle direzioni della fuga da Roma saccheggiata
da Alarico. Rutilio Namaziano ricorda come molte famiglie avessero trovato rifugio nell’isola del
Giglio e, in generale, nelle isole dell’arcipelago toscano. La direzione principale della fuga sembra
però essere stata a Sud, verso l’Italia meridionale, la Sicilia e di là l'Africa e addirittura la Palestina.
Una parte di questi profughi emigrati oltremare era composta da membri delle élites romane, in gran parte aristocratici che hanno perso i loro beni (quelli più preziosi, dalle statue di bronzo ai gioielli, venivano accuratamente nascosti, interrati, murati o buttati nel Tevere).
L’imprigionamento, nella prospettiva o meno del riscatto, era una delle opzioni dei barbari vincitori nei confronti delle popolazioni esposte al loro assalto. L’uccisione, soprattutto dei maschi adulti, costituiva la scelta più drastica, ma nondimeno praticata con relativa frequenza. ” (V. Neri)
“Sebbene la storia ricordi il sacco dei Vandali (455) come estremamente brutale (da cui il termine vandalismo per indicare un atto di violenza distruttiva e gratuita), in verità Genserico onorò il suo impegno di non abbattere la sua forza sul popolo romano ed i Vandali non operarono nessuna distruzione degna di nota nella città; essi comunque razziarono l'oro, l'argento e molti altri valori, con un impeto peggiore di quello dei visigoti di Alarico, autori del sacco del 410.
I Vandali depredarono di ogni ricchezza il palazzo imperiale, e spogliarono i templi come quello di Giove Capitolino, privato per metà del tetto di bronzo. Anche le statue furono trasportate su una nave, che però non riuscì a raggiungere il porto di Cartagine, finendo dispersa.
Migliaia di cittadini romani, di ogni età e rango, furono fatti prigionieri: tra questi spiccavano personaggi illustri, come Gaudenzio figlio di Ezio.
Sedici anni dopo “...l'assedio del 472 si prolungò per cinque mesi, da febbraio a luglio e vide la città come principale campo di battaglia. Una parte di essa, attorno al Palatino era controllata da Antemio, mentre le milizie di Ricimero, collocate principalmente apud Anicionis pontem (forse ponte Milvio) e presso Pons Hadriani, occupavano le aree di Trastevere, del Gianicolo e del Vaticano. Ricimero, forte del controllo dei ponti e del possesso degli accessi del Tevere, impediva i rifornimenti, lasciando i Romani in balia della fame e delle epidemie.” (Wiki)
“Il periodo successivo alla deposizione di Romolo Augusto del 476, per convenzione considerata la fine dell'Impero romano d'Occidente, vide l'instaurazione di nuovi regni, detti regni romano-barbarici (oppure romano-germanici o latino-germanici). Essi si erano andati formando nelle ex province romane già a partire dalle invasioni del IV e V secolo. Di fatto autonomi, venivano inquadrati come foederati. Inizialmente anche i nuovi regni successivi alla caduta dell'Impero d'Occidente rimasero spesso formalmente dipendenti dall'Impero romano d'Oriente. I capi barbari erano al contempo reggenti per il monarca di Costantinopoli e sovrani dei loro rispettivi popoli.
La cultura germanica non riuscì né sentì il bisogno di eliminare quella romana e ogni popolo contribuì con le proprie caratteristiche migliori nel dare vita ai regni romano-barbarici. Nonostante il ruolo distruttivo che spesso i popoli invasori svolsero sulle terre invase soprattutto nel momento iniziale della conquista, alcune fonti polemiche (ad esempio il De gubernatione Dei di Salviano di Marsiglia) sostengono che le popolazioni provinciali preferissero i nuovi dominatori germanici al rapace fiscalismo del governo romano, tanto da indurre parte della popolazione a fuggire dal territorio imperiale per trasferirsi nei territori controllati dai barbari.” (Wiki)
“I mutamenti sociali del V secolo portarono il cambiamento del modo di pensare da parte dei cristiani nei confronti del paganesimo. Non solo in Oriente, ma anche in Occidente, si finì col capire che la politica integralista seguita fino allora, fondata sulla soppressione dei templi o sulla loro chiusura era disastrosa sotto tutti i punti di vista: sollevava solo ostilità fra i due gruppi religiosi che dividevano l’impero; era un vero crimine artistico consumato spesso a danno di capolavori dell’antichità; era una spesa costosissima per lo Stato che doveva pagare il lavoro di centinaia di operai impiegati per lo smantellamento degli edifici pagani. Né era una decisione saggia lasciare chiusi locali, spesso grandissimi (templi, atri, abitazioni dei sacerdoti, boschetti sacri) senza trarne alcun beneficio pubblico. Meglio, dunque, sarebbe stato adattarli, con qualche ritocco architettonico, ad una nuova destinazione: così si trasformarono i templi antichi in chiese per il nuovo culto cristiano. Comunque il riuso dei templi per le chiese fu evitato all’inizio, almeno fino a tutto il V secolo, probabilmente perché la comunità cristiana sentiva troppo il peso del culto precedente e degli dei pagani per sentirsi a suo agio in quegli edifici, che riteneva abitati dallo spirito maligno. Solo quando il cristianesimo fu ormai saldo, e lontano il ricordo della vecchia religione tanto avversa, si cominciò la conversione dei vecchi templi”. (Lonardo)
VI Sec. Tre inondazioni del Tevere
508 Forte terremoto.
Si diffondono calcare e fornaci (per tutto il Medioevo e oltre).
Progressivo abbandono delle Catacombe.
Guerra Greco-Gotica 535-553, i Goti distruggono gli acquedotti.
537-538 Sacco di Vitige v. Belisario – Carestia
546 Sacco di Totila-Ostrogoti
568 Carestia. Arrivo dei Longobardi in Italia.
590-604 Papato di Gregorio Magno (64º papa)
590 Epidemia di peste (oltre 15.000 morti)
Pop. Fine Secolo ≃ 30.000
Le invasioni del V Secolo furono nulla rispetto allo stato cui fu ridotta Roma dopo la Guerra Greco-Gotica: la popolazione dell'Urbe passò in cinquant'anni da 250.000 a circa 30.000 abitanti.
“L’unico organismo efficace e capace di tenere insieme la compagine sociale, economica e politica
era la Chiesa. Con a capo Gregorio I Magno, controllava e amministrava territori e mediava accordi
con i Longobardi per impedire uno scontro diretto. La Chiesa quindi nel VI secolo assicurò con
i finanziamenti sia il decoro delle sue proprietà e la protezione dei monasteri ma contribuì anche ad
aiutare i poveri e bisognosi con un vero e proprio programma di assistenza, coprendo le mancanze
dello stato Bizantino.” (Krautheimer)
“Gli eventi urbanistici altomedievali furono un succedersi infinito e sovrapposto di distruzioni, smantellamenti, costruzioni, ricostruzioni e interramenti, in una ex-metropoli che da complessa e altamente organizzata viene colpita da eventi naturali e bellici tali da ridurne la popolazione del 95% nell'arco di un tempo relativamente breve. Alla fine del VI Secolo questo grosso calo di popolazione, conseguente alla lunga guerra Greco-Gotica e al sacco di Totila, accompagnati da denutrizione e malattie (peste, vaiolo e soprattutto malaria), rende l'Urbe abbandonata e in parziale incuria. Anche le campagne sono state abbandonate, manca così un approvvigionamento regolare di viveri, accentuando il rischio di carestie. I maestosi complessi monumentali e termali, i teatri, gli stadi ed i lussuosi giardini non hanno più ragione di esistere e richiederebbero una manutenzione impossibile da farsi, per assenza di risorse umane ed economiche. Il sistema fognario e gli acquedotti sono da ripristinare. Del resto tutta l'Italia è in ginocchio. Nonostante ciò, secondo i
testimoni dell'epoca, dopo le invasioni, i saccheggi e gli incendi, l'Urbe brilla ancora del suo splendore imperiale. Ma è semideserta; escluse le aree del Velabro, del Foro e del Campo Marzio meridionale, è abitata a macchie di leopardo. Resta il fatto che il periodo che intercorre fra il VI ed il X Secolo, parlando di urbanistica e urbanizzazione, è a noi in gran parte sconosciuto. ” (Thomas)
“Nel VI secolo si hanno altri insediamenti di chiese in edifici pubblici non cristiani come S.Maria in Cosmedin nella Loggia dell’Ara Maxima di Ercole, SS. Cosma e Damiano in un annesso del Templum Pacis, e forse S. Agnese in Agone nello stadio di Domiziano (ancora in piedi).
A questo Secolo si possono datare anche istituti assistenziali che non furono costruiti ex novo, ma riutilizzando antichi edifici preesistenti, forse, donati da benefattori o di proprietà della Chiesa o dello Stato: S. Stefano Rotondo nei Castra Peregrina, S. Maria in Cosmedin nello Statio Annonae, S. Giorgio al Velabro nel Forum Boarium, S. Teodoro, S. Maria Antiqua nell' Horrea Agrippiana,
S. Maria in via Lata nell' Edificio horreario, S. Vito nel Macellum Liviae e S. Maria in Domnica nei Castra Peregrina e Macellum Magnum di Nerone. Nella zona del Foro sorse Santa Maria Antiqua, eretta sui resti degli edifici imperiali.” (Lonardo)
“Papa S. Cleto (Anacleto), morto martire nell’88 d.C., fu il primo a trasformare la sua dimora in ospizio, adattandolo al ricovero di ammalati e bisognosi. Ed il suo esempio fu imitato, tant’è che al tempo di Papa Leone III (795-816) erano operative nella sola Roma 24 diaconie, tra le quali “sanctae Luciae qui ponitur in xenodochium qui appellatur Anichiorum, sancti abba Cyri qui ponitur in xenodoxhium a Valeris, sanctorum Cosmae et Danuani qui ponitur in xenodochiurn qui appellatur Tucium”. Per la precisione le diaconie erano rivolte soprattutto ai bisognosi di assistenza materiale (dar da mangiare agli affamati), mentre per dare assistenza morale e sanitaria si andarono a realizzare gli xenodochia (il più antico, di cui si abbia notizia, è quello di Belisario, situato dove attualmente ha sede S. Maria in Trivio, vicino a Fontana di Trevi).” (Ruffino)
“Lo xenodochium è un termine greco-bizantino, che inizialmente indica un ospizio per stranieri, e successivamente un luogo di accoglienza per coloro che versano in stato di necessità.
Gli organismi assistenziali possono trovarsi sia all’interno che all’esterno di un monastero, sempre alle sue dipendenze e collocati lungo le vie del pellegrinaggio. Probabilmente dovevano essere costituiti da semplici stanze dove pellegrini, viandanti, poveri e malati potevano trovare una sistemazione. Nelle normative imperiali si incarica il clero di provvedere al mantenimento e al loro restauro. Ad esempio nell’Admonitio generalis si raccomanda l’istituzione di hospitia per ospiti di riguardo e per poveri e pellegrini: “perché il Signore stesso dirà, nel gran giorno della ricompensa: ‘ero straniero e voi mi avete accolto’”. (Daniele Lamberti)
“Degli xenodochia romani non sopravvivono, né sono documentate strutture, se non relative agli adiacenti edifici di culto. La loro evoluzione , così come ci è sembrato sulla base delle poche notizie di cui disponiamo, ripercorre con coerenza le vicende di Roma tra tardo antico e altomedievo. Sembrano potersi individuare alcuni momenti di profonda trasformazione: innanzitutto all'epoca della guerra gotica, con il passaggio di consegne, alla direzione della città, tra la vecchia aristocrazia senatoria e il nuovo potere del papato. Anche il servizio assistenziale segue questo processo, e vediamo gli xenodochia, che testimoniavano nel loro stesso appellativo l' evergetismo delle nobili gentes del clarissimato, passare in gestione alla Chiesa, che d'ora in poi si preoccuperà in prima persona anche di incrementare il servizio con nuove fondazioni. È probabile che anche i servizi assistenziali abbiano usufruito dell'instancabile opera organizzatrice di Gregorio Magno, anche se è facile correre il rischio di sopravvalutare il suo operato, abbagliati dall'improvvisa disponibilità di una eccezionale e ricchissima fonte quale è il suo Epistolario”. (R. Santangeli Valenzani)
“I trenta anni trascorsi dal convegno “L’Urbs” del 1985 hanno visto trasformarsi completamente la nostra visione della Roma tardo antica. Se ancora nel 1980 R. Krautheimer poteva disporre, per la sua mirabile sintesi sulla Roma tardo antica e medievale, di pochi passi delle fonti scritte e dei dati sugli edifici religiosi, oggi i risultati dei numerosi progetti di archeologia urbana ci consentono di delineare con molto maggiore accuratezza le trasformazioni del paesaggio urbano, così come la realtà demografica ed economica della città. Il quadro che ne risulta, lontano tanto dalle visioni catastrofiste che volevano una Roma sostanzialmente spopolata e abbandonata, quanto da quelle irenicamente continuiste, vede una città dalla popolazione severamente ridotta rispetto a quella del IV secolo, ma ancora calcolabile in decine di migliaia di abitanti, con evidenti elementi di degrado delle infrastrutture e di parziale abbandono di alcuni settori, ma con una sostanziale tenuta dei tracciati stradali e dell’assetto urbano e, ancora fino all’inizio dell’VIII secolo, inserita nelle correnti di traffico commerciale mediterraneo e attivo centro produttivo.
In quasi tutti i casi in cui un complesso abitativo, sia formato da insulae che da domus aristocratiche, è stato indagato stratigraficamente, si è constatato che il suo abbandono e interro è da attribuire al V o, al più tardi, ai primissimi anni del VI secolo. Gran parte del patrimonio di edilizia abitativa della città doveva quindi essere, già molto prima della guerra greco-gotica, in abbandono e fatiscente, fenomeno evidentemente da porre in relazione con la crisi demografica, sulla quale oggi abbiamo le idee più chiare di qualche decennio fa, e che dovette vedere un vero crollo della popolazione, fino a un ordine di grandezza di qualche decina di migliaia di abitanti, già prima della fine del V secolo. Tradizionalmente le cause di questo crollo demografico sono state riportate a eventi traumatici, come i sacchi del 410 o del 455; personalmente ritengo limitativo interpretare fenomeni di questa portata come conseguenza di singoli eventi, per quanto significativi, e credo che debbano essere riportati a profondi mutamenti strutturali della società, e in particolare alla fine del sistema di approvvigionamento garantito dallo stato (l’Annona), che aveva reso possibile nella Roma di età imperiale una concentrazione di abitanti senza confronti in una società preindustriale, e che era venuto meno con il collasso dell’organizzazione imperiale.
Anche per quanto riguarda i grandi complessi monumentali imperiali, quelli di cui Procopio di Cesarea ancora nel terzo decennio del VI secolo sottolineava il buono stato di conservazione, i dati archeologici hanno fornito dei dati che consentono di precisare e correggere il quadro restituito dalle fonti. Il complesso dei Fori Imperiali, l’area monumentale della città oggi meglio conosciuta, fornisce un buon esempio della diversità dei modi e dei tempi in cui sono avvenute le trasformazioni delle grandi strutture pubbliche.
Anche qui già dalla seconda metà del V secolo troviamo testimonianze dell’abbandono e della destrutturazione dei monumenti imperiali. Nel Foro di Cesare, in una delle tabernae che si aprono a fianco della piazza si impianta allora una piccola fornace destinata, forse, a fondere e riciclare metallo proveniente dalla spoliazione della piazza. Alla stessa epoca si pone anche l’avvio della demolizione del muro in blocchi di travertino che delimita il lato occidentale del Foro. Pochi decenni dopo troviamo, nel Foro di Augusto, il grande tempio di Marte Ultore intenzionalmente demolito per recuperare materiale da riutilizzare, come mostra l’iscrizione Pat(rici) Deci, un’evidente attestazione di proprietà da parte di un personaggio nel quale è probabilmente da riconoscere un prefetto urbano dell’epoca di Teoderico, incisa, dopo il suo smontaggio, su una delle gigantesche colonne del tempio. Un caso analogo è stato individuato anche al Colosseo, dove la scritta Geronti V(iri) S(pectabilis) incisa sul monumento dopo la demolizione di uno dei pilastri dell’anello esterno, mostra anche in questo caso come già da prima della guerra greco-gotica fosse ben avviata la pratica di spoliare i monumenti pubblici, e come dietro queste attività ci fossero le classi dirigenti della città, le stesse che, in ottemperanza alle disposizioni imperiali ancora formalmente in vigore, avrebbero dovuto vigilare sulla loro conservazione. Anche in altri monumenti ed edifici pubblici oggetto di scavi stratigrafici, come Crypta Balbi, piazza Venezia o l’Atheneum di Adriano, è attestato nel corso del V secolo un generalizzato momento di abbandono
e spoliazione.
Per quanto riguarda un altro elemento caratteristico della città antica, cioè le grandi terme imperiali, gli scavi recenti hanno ugualmente fornito dati che permettono di correggere la visione tradizionale, che vedeva nel taglio degli acquedotti operato da Vitige nel 537 l’episodio che avrebbe messo definitivamente fuori uso questi grandi complessi: almeno nel caso delle terme di Traiano i grandi condotti di deflusso delle acque appaiono interrati infatti già nel V secolo, mostrando l’avvenuta defunzionalizzazione dell’impianto. Questo d’altra parte è perfettamente coerente con le dinamiche demografiche descritte prima: con una popolazione ridotta a un decimo di quella della piena età imperiale, sarebbe stato impossibile, e privo di senso, mantenere in attività i giganteschi complessi termali pensati per una città di un milione di abitanti.
Appare dunque oggi chiaro che la destrutturazione dell’impianto urbano, l’abbandono di interi settori della città, il degrado degli edifici e delle infrastrutture, l’avvio della massiccia spoliazione dei monumenti, la perdita delle loro funzioni di quelle strutture, come gli edifici da spettacolo e le terme, che caratterizzavano la “Roman way of life”, sono tutti fenomeni già evidenti almeno dalla metà del V secolo, e pienamente compiuti nei primi anni del VI.
Se non fossimo costretti dall’evidenza archeologica, sarebbe difficile credere che mentre i senatori acclamavano Ezio e Teoderico, elevavano loro delle statue, organizzavano giochi e ponevano iscrizioni celebrative, a pochi metri di distanza si smontavano muri, capitelli e colonne e, dietro una palizzata di assi di legno, altre statue venivano fatte a pezzi e fuse. Come sempre, la descrizione, e la stessa percezione, del paesaggio urbano nelle fonti antiche ci giunge attraverso un filtro ideologico, e la sua trasposizione nelle categorie degli studiosi contemporanei – continuità, discontinuità, crisi della forma urbana, postcittà, e tutti gli altri concetti che ricorrono nel nostro dibattito storiografico – richiede una vera opera di “traduzione” che non può non venire dal confronto con il dato archeologico, che contribuisce a smascherare, per noi, una realtà che nella documentazione proveniente delle classi egemoni ci giunge velata e distorta.
Se dunque la seconda metà del V secolo appare ora come il momento cruciale nella storia della trasformazione della struttura urbana di Roma, gli scavi hanno anche mostrato come, nella maggior parte dei casi, a questa crisi dell’assetto monumentale non abbia corrisposto, per molto tempo ancora, una crescita dei livelli di calpestio di strade e piazze, né sostanziali modifiche al tessuto viario. Lo scavo di piazza Venezia ha mostrato come il basolato romano della uia Lata continui ad essere utilizzato fino al IX secolo, quando subisce il primo rialzamento di livello; nel uicus ad Carinas, attualmente in corso di scavo da parte del Parco Archeologico del Colosseo in collaborazione con l’Università Roma Tre, il primo battuto che si va a sovrapporre al livello massenziano della strada sembra essere addirittura di XI secolo. Anche nelle piazze dei Fori, a Crypta Balbi, nella zona dell’Atheneum, nel Colosseo, in molte altre parti oggetto di scavo, la fase di destrutturazione e di spoliazione di V-VI secolo non si accompagna quasi mai a una significativa crescita dei depositi, se non nei bacini di deposizione chiusi formati da edifici o ambienti abbandonati utilizzati come scarichi e immondezzai. La Roma del primo medioevo si doveva presentare in molti luoghi come una città “a due livelli”: mentre gli spazi di circolazione e gli ambienti ancora utilizzati vivevano ancora al livello antico, buona parte degli edifici residenziali e di quelli pubblici erano abbandonati, parzialmente crollati, con le aperture tamponate e pieni di detriti.
Un altro aspetto sul quale le ricerche recenti consentono di correggere la ricostruzione proposta da Krautheimer, riguarda la sua ipotesi che già dai primi decenni dopo la guerra gotica l’area abitata della città si fosse ristretta alla zona dell’ansa del Tevere, anticipando quindi alla seconda metà del VI secolo la creazione di quel “disabitato urbano” che avrebbe caratterizzato Roma in età medievale e moderna, fino al 1870. In realtà i dati disponibili sembrano indicare che ancora per molti secoli (probabilmente almeno fino al X) dobbiamo immaginare un abitato a bassa o bassissima densità, ma sparso in nuclei di popolamento su gran parte dello spazio intramuraneo, secondo quel modello di città polinucleata, o “città ad isole”, che sembra caratteristico delle città del primissimo medioevo dell’Italia centro settentrionale.
Il quadro che i dati archeologici ci consentono di delineare per la Roma tardo antica, tuttavia, non è univoco. Mentre perdeva il suo aspetto monumentale e la sua centralità politica, la città sembra infatti acquisire una nuova funzione economica; è questo l’aspetto forse più inaspettato e interessante messo in luce dagli scavi recenti, che hanno mostrato la diffusione di impianti artigianali, legati alla lavorazione specialmente del metallo e del vetro, in quasi tutti i luoghi dove si sono indagate fasi di V e VI secolo, a volte con concentrazioni produttive veramente eccezionali.
Le prime scoperte in questo senso sono state quelle dell’esedra della Crypta Balbi, con l’impianto di fornaci per la produzione del vetro, e poi con la grande officina di VII secolo del monastero di S. Lorenzo in Pallacinis, ma poi quasi non c’è stato grande scavo urbano in cui, in corrispondenza dell’orizzonte cronologico di V-VII secolo, non si trovassero tracce di questo tipo di attività: abbiamo visto il Foro di Cesare, ma casi eclatanti sono quelli dell’Atheneum, di piazza Venezia, di S. Omobono, del uicus ad Carinas e tanti altri sparsi in tutta la città. Quale significato dare a questo spostamento delle attività produttive nel centro monumentale? In alcuni casi esse possono essere legate alle attività di spoliazione e riciclo del materiale; questo è certo, evidentemente, per le calcare, ma anche le fornaci per metallo e vetro possono essere state destinate alla fusione delle statue e delle decorazioni in bronzo, delle fistule plumbee, delle vetrate; in questo caso sarebbero una ulteriore testimonianza della fase di crisi della struttura urbana; in altri casi tuttavia la stessa dimensione e continuità di utilizzo di questi impianti (è il caso ad esempio dell’Atheneum, nel quale si è proposto di riconoscere la zecca della Roma bizantina) o il tipo di lavorazione (come nella zona di S. Omobono e dell’insula Volusiana, dove veniva lavorato il ferro), indicano che ci troviamo di fronte a una vera ricollocazione in ambito urbano delle attività produttive e, per la loro quantità e diffusione nel territorio, sono indizio di una vivacità produttiva e dell’esistenza di un mercato ancora ricettivo.” (R. Santangeli Valenzani)
“I Longobardi (etimo: dalla lunga barba) furono una popolazione germanica, protagonista tra il II e il VI secolo di una lunga migrazione che la portò dal basso corso dell'Elba fino all'Italia. Entrati a contatto con il mondo bizantino e la politica dell'area mediterranea, nel 568, guidati da Alboino, si insediarono in Italia, dove diedero vita a un regno indipendente che estese progressivamente il proprio dominio sulla maggior parte del territorio italiano continentale e peninsulare. Roma fu spesso minacciata di invasione, ma gli accordi e le mediazioni ad opera del papa riuscirono a scongiurare l'evento, sebbene la città abbia molto risentito delle scorrerie e dei saccheggi longobardi sulle campagne laziali. Nel corso dei secoli, i Longobardi, inizialmente casta militare rigidamente separata dalla massa della popolazione romanica, si integrarono progressivamente con il tessuto sociale italiano, grazie all'emanazione di leggi scritte in latino (Editto di Rotari, 643), alla conversione al cattolicesimo (fine VII secolo) e allo sviluppo, anche artistico, di rapporti sempre più stretti con le altre componenti sociopolitiche della Penisola (bizantine e romane). La contrastata fusione tra l'elemento germanico longobardo e quello romanico pose le basi, secondo il modello comune alla maggior parte dei regni latino-germanici altomedievali, per la nascita e lo sviluppo della società italiana dei secoli successivi.” (Wiki)
N Museo di Crypta Balbi, Basiliche di santa Pudenziana e santa Prassede, Museo dell'Alto Medioevo.
VII Sec. Tre inondazioni del Tevere
618 Terremoto
Trasformazioni nel Campidoglio.
VIII Sec. Numerosi restauri di papa Adriano I
Diffusione dei campanili.
791 Inondazione del Tevere
Popolazione ≃ 40.000
“Le origini del dominio temporale dei papi possono essere considerate di fatto con la progressiva dissoluzione del potere bizantino in Italia centrale e la costituzione del Ducato romano (ultimi decenni del VI secolo); la figura del papa venne prima ad affiancarsi, poi a sostituirsi, a quella del dux di nomina imperiale. Nell'Urbe e nell'Agro romano i papi subentrarono ai suoi poteri, in primis nell'esercizio della giustizia di appello, nella riscossione delle imposte, nella possibilità di imporre la fedeltà politica e l'aiuto militare ai vassalli loro sottoposti. In seguito, alla caduta dell'Esarcato d'Italia e alla fine del dominio dell'Impero bizantino sull'Italia centro-settentrionale, i papi divennero pienamente possessori di poteri sovrani nell'Italia centrale. Furono invece di diritto le donazioni carolinge; oltre a esse, la Donazione di Sutri (728), la Promissio Carisiaca (754 e 774) e la Constitutio Lotharii (824) furono altrettante basi fondanti dello Stato Pontificio. La debolezza della classe senatoriale, decimata dalle guerre gotiche ed emigrata in gran parte a Costantinopoli, la lontananza da Roma dell'esarca che manteneva la propria residenza a Ravenna e, non ultimo, il prestigio personale di alcuni grandi papi, fecero sì che il pontefice divenne, di fatto, la massima autorità civile del Ducato romano. Gli imperatori bizantini lo percepirono in alcuni casi come un contropotere rispetto a quello ufficiale dell'esarca. Per quanto riguarda la difesa della città, il pontefice promosse la creazione di una milizia locale (exercitus), costituita inizialmente dalle scholae (corporazioni che radunavano i residenti di varie nazionalità), dalle corporazioni di mestiere e dalle associazioni rionali. La milizia, insieme al clero e al populus (i capi delle grandi famiglie) ottenne il diritto di partecipare alle elezioni papali.
Da papa Bonifacio V (625) ogni pontefice, dopo l'elezione, si rivolse direttamente all'esarca per ottenere l'approvazione imperiale. Papa Zaccaria (741) fu il primo pontefice a non chiedere conferma della propria elezione né a Ravenna né a Costantinopoli.
Il papa amministrò i nuovi territori mediante actionarii, lasciando però le forme di vita municipale, tipiche del governo bizantino. Roma era in mano all'aristocrazia che intendeva mantenere in vita l'antico Senato, mentre il popolo era diviso in scholae: dodici per i quartieri sulla riva sinistra del Tevere, due per il Trastevere; vi erano inoltre una schola Graecorum e quattro scuole per Sassoni, Frisoni, Franchi e Longobardi, all'interno della basilica di San Pietro. Il papa cominciò a coniare moneta con il suo nome e la sua effigie e, dal 781, cominciò a datare i documenti secondo gli anni del suo pontificato invece degli anni di regno dell'imperatore”. (Wiki)
“Durante il VI e VII Secolo era frequente che anche dimore private fossero ricavate nei monumenti
pubblici in rovina; prese consistenza l'uso di seppellire i morti dentro la città, contravvenendo alla
legge romana; non sporadicamente o furtivamente, ma in sepolture qualificate e corredate da
iscrizioni. Il collasso della città antica sembra ormai compiuto e per quasi due secoli non ci sarà
riqualificazione urbana. Viene meno una società complessa ed evoluta, sostituita da una impotente
e primordiale che vive tra i resti dell'antica città ma in condizioni non più cittadine. (…)
Decadenza o trasformazione? Cassiodoro non lamenta una situazione catastrofica, un certo decoro imponeva un controllo ed una cura degli edifici in uso, cercando di tenere sgombre le strade da macerie e immondizie; inoltre Teodorico (re d'Italia dal 493 al 526) regolava per legge lo smontaggio dei monumenti antichi, oramai diventati cantieri. La ridotta popolazione ha interesse a mutare i criteri di gestione e uso della città, riorganizzando l'insediamento all'insegna della comodità, delle opportunità e del risparmio.” (Delogu) L'impianto topografico è grosso modo ancora quello imperale e le strade mantengono lo stesso nome latino.
I rischi legati ai roghi, accidentali o deliberatamente provocati (specie dai saccheggiatori),costituivano ancora una delle minacce più gravi al regolare svolgimento delle attività e alla sopravvivenza della comunità urbana, e l'azione spontanea dei popolani era incentrata quasi esclusivamente sull'improvvisazione. Nel periodo alto-medievale prevaleva un atteggiamento fatalistico e di sfiducia, in quanto le calamità e i roghi di vasta portata venivano identificati per lo più come castighi divini. Significativa in tal senso è la cronaca secondo la quale, nell'anno 847, durante l'incendio verificatosi nel quartiere di Borgo, fu papa Leone IV ad intervenire personalmente per domare le fiamme, sulle quali gettò i propri paramenti sacri provocandone l'estinzione. Altro "metodo" per scongiurare o affrontare gli incendi e i disastri era quello di portare in corteo le spoglie del santo protettore o altre reliquie e simulacri. Questi elementi testimoniano il senso d'impotenza delle genti del Medioevo di fronte ad eventi di quel tipo e il loro rifugiarsi all’interno di un atteggiamento passivo, che concorse ad impedire la presa di coscienza necessaria a dare impulso a organizzazioni in grado di fronteggiare le sventure legate al fuoco. Nell'VIII secolo Carlo Magno iniziò a ripristinare un sistema organizzato di prevenzione ed estinzione degli incendi: pur non eguagliando ancora l'efficacia della militia vigilum d'epoca imperiale, fu il primo serio tentativo di ripristinare un servizio la cui assenza si era fatta pesantemente sentire. (vigilfuoco)
“Nel primo decennio del VII secolo si rileva un importante intervento: non si tratta di una nuova costruzione, ma della trasformazione del Pantheon in edificio di culto cristiano, con dedica alla Vergine e ai martiri, ad opera di Bonifacio IV, per concessione dell’imperatore Foca. L’occupazione cristiana nel 609 dell’antico tempio fu prima di tutto un atto di grande rilievo politico, in secondo luogo ebbe anche una rilevante valenza urbanistica in quanto Santa Maria ad Martyres venne a costituire un polo importante del Campo Marzio, che nel medioevo aveva la massima concentrazione abitativa della città. Nel 735 Gregorio III fece ricoprire la cupola con lastre di piombo in luogo di quelle di bronzo asportate nel 655 dall’imperatore Costante II. Il Pantheon, una volta consacrato al culto cristiano, deve essere stato per molto tempo l’unica grande chiesa situata nella parte orientale del quartiere che poi divenne il centro della città.” (Lonardo)
“Nell'ottavo Secolo papa Adriano I s'impegnò in numerose opere edilizie e sociali, restituendo a Roma quell'aspetto di monumentalità che l'aveva caratterizzata nel periodo dello splendore imperiale. Tra le opere principali: la ristrutturazione degli argini del Tevere che un'inondazione nel 791 aveva danneggiato, il restauro di alcuni degli antichi acquedotti romani, con una più capillare distribuzione idrica nella città, e la ristrutturazione delle mura, con nuove e più adeguate fortificazioni. Notevoli e numerosi i suoi provvedimenti nel campo dell'edilizia religiosa: la basilica di San Pietro e il suo campanile, con interventi sia esterni che interni non solo di pura edilizia ma soprattutto di arricchimento e miglioramento artistico (statue, mosaici, ecc.), con abbondante (ri)utilizzo di materiali pregiati. “A partire dal secolo VIII un’intensa attività edilizia interessò l'area del Laterano, che si venne via via costellando di monasteri, di cappelle e oratori (S. Silvestro, S. Tommaso, S. Nicolò, S. Venanzio, S. Lorenzo, SS. Salvatore), di abitazioni, mulini, cisterne, botteghe, locande e ospizi per i pellegrini e abbeveratoi per animali (alimentati dal vicino acquedotto neroniano riparato intorno al 1120), tanto che nel sec. XII il Patriarchìo era ormai l'epicentro di un borgo abbastanza consistente.” (F.A. Angeli) Altri vecchi templi pagani furono trasformati in chiese: S. Nicola dei Cesarini, nell'area sacra di Torre Argentina; S. Nicola in carcere, presso i templi del foro olitorio; S. Maria Nova, sul colle della Velia; Santa Maria Egiziaca nel Tempio di Portunus; S. Lorenzo in Miranda nel Tempio di Antonino e Faustina; S. Silvestro in Capite nel Tempio del Sole; S. Omobono nei templi gemelli di Fortuna e Mater Matuta, sotto la rupe Tarpea.” (Wiki)
Con papa Pasquale I furono inoltre ricostruite le basiliche di S. Maria in Domnica e di S. Cecilia in Trastevere. Roma stava diventando la città dalle mille chiese.
N Pantheon, area sacra di Torre Argentina, S. Nicola in carcere
IX Sec. Quattro inondazioni del Tevere
801, 847 o 849 Terremoti, il secondo molto forte.
848-852 Costruzione delle Mura Leonine
846 Incursioni dei Saraceni
“Dall'alleanza coi Franchi il papato trasse certamente due vantaggi: sicurezza del dominio e nuove fonti di reddito. La sostituzione dei re bizantini con quelli carolingi liberò i territori dalla minaccia sempre incombente di una rivincita longobarda. (…) L'esercizio della giurisdizione produceva tributi, pedaggi, diritti di zecca, multe, confische, cui si aggiungevano i redditi delle numerose proprietà fondiarie incamerate dalla Chiesa romana in tutto il Lazio. La combinazione di questi cespiti rese possibile la straordinaria attività di riorganizzazione e abbellimento dell'impianto urbanistico e monumentale iniziata da Adriano I e Leone III. Si realizzarono il restauro delle chiese fatiscenti, il ripristino delle mura e degli acquedotti; il potenziamento del complesso lateranense; le infrastrutture della viabilità e dell'accoglienza intorno a S. Pietro; l'abbellimento di tutte le chiese con lampade e vasi d'oro e d'argento e con tessuti preziosi. Parliamo di ottomila chili d'argento e più di mille chili d'oro, e inoltre duemila pezze di tessuti e broccati, che all'epoca valevano quanto i metalli preziosi.” (Delogu)
“Grazie alla collaborazione con i funzionari archeologi della Soprintendenza di Roma, della Provincia e del Comune, nel corso degli anni sono state acquisite informazioni sulle tracce archeologiche di terremoti del passato, nello specifico per il periodo compreso tra il V e il IX secolo d.C. In particolare, dalle stratigrafie archeologiche emerge che probabilmente a causa dell’elevata vulnerabilità degli edifici – di età plurisecolare, spesso senza manutenzione per secoli o privi di parti originarie per la prassi della spoliazione – lo scuotimento sismico ha contribuito in misura non trascurabile ai cambiamenti del paesaggio urbano, alimentando la formazione di contesti ruderali o comunque degradati. In sostanza, proprio per l’elevata vulnerabilità dei fabbricati è possibile che gli effetti dei terremoti del passato siano stati superiori a quelli meglio noti dalle fonti storiche relative ai terremoti più recenti (es. 1703 e 1915). Le fonti scritte citano cinque terremoti per il periodo compreso tra il V e il IX secolo. Per alcuni di questi eventi, ad esempio quello avvenuto nel 443 d.C., sono menzionati danni nell'Urbe. Al contrario, non sono riportati danni in riferimento al terremoto dell’847. In quest’ultimo caso le stratigrafie archeologiche completano l’informazione storica, permettendo di ipotizzare che danni consistenti abbiano interessato l’attuale settore centrale di Roma proprio in occasione di questo evento. Si può vedere che nel caso citato l’archeologia porta un arricchimento sostanziale delle conoscenze sugli effetti dei terremoti del passato. Questo aspetto è fondamentale, se si considera che proprio sulla storia sismica di un territorio si basano le stime di pericolosità, cioè quelle valutazioni che consentono di definire la probabilità di occorrenza di un certo tipo di scuotimento sismico in un dato intervallo temporale. Certamente i collassi – spesso verticali – di interi edifici sono gli effetti più sorprendenti, considerando che si tratta dell’attuale centro storico di Roma. Questa dinamica di crollo è riscontrabile sia per l’edificio nei sotterranei di Palazzo Spada, sia per la struttura di pertinenza di un’aula del Foro di Traiano rinvenuta nel corso degli scavi Metro C di piazza Madonna di Loreto, sia per le cosiddette “Piccole Terme” nei sotterranei del Palazzo Valentini. Gli scavi degli ultimi anni hanno portato alla luce veri e propri cumuli di macerie legate al crollo improvviso di fabbricati ancora in uso al momento della distruzione, in un quadro generale per cui è difficile ipotizzarne la fine per inconsistenza strutturale. Rispetto a queste imponenti unità di crollo, gli effetti dei terremoti del passato tradizionalmente associati a monumenti esposti e fruibili come il Colosseo, il tempio di Marte Ultore, quello di Venere Genitrice o quello di via delle Botteghe Oscure sono meno immediatamente definibili.
I forti eventi sismici che hanno interessato Roma fin dall’Antichità hanno avuto un notevole impatto nell’evoluzione delle forme dell’anfiteatro. E’ noto che il Colosseo forse subì danni nel 443 e certamente poco prima del 484 o del 508. Sappiamo, dagli studi archeologici di Rossella Rea, che quest’ultimo evento sismico provocò il crollo parziale del colonnato del portico nella summa cavea; in particolare, la caduta di una ventina di colonne comportò la distruzione dei settori nord-est e sud-est; un’altra porzione del colonnato crollò nel settore occidentale. I restauri riguardarono l’arena e il podio, come si può evincere dalle iscrizioni gemelle poste all’ingresso del monumento. Il Colosseo però subì danni ingenti anche in occasione dei terremoti successivi. Per esempio, nel 1349 si ebbe il collasso delle arcate esterne nel settore meridionale. In sostanza, quanto noi oggi vediamo è in parte il risultato dei danni sismici.” (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia)
“Credendoli finalizzati alla propria autonomia, il popolo romano sosteneva gli sforzi del papato, ma divenne il suo peggior antagonista una volta che il pontefice ricorse a poteri stranieri per regolare l'ordine nella città. Le nuove famiglie aristocratiche come i Crescenzi e i Tuscolani controllavano l'istituzione pontificia, governando con essa. Questi nuovi senatori, dal tipo di vita strettamente militare, giocavano con le alleanze matrimoniali al fine di mantenere la coesione dei lignaggi.” (Vauchez)
“I costumi della nobiltà urbana possono essere colti solo in modo frammentario da qualche sparsa notizia delle fonti scritte. Solitamente i nobili si spostavano a cavallo anche all'interno della città, il che attenua le perplessità che può suscitare il pensiero di spostarsi attraverso l'enorme estensione del territorio urbano all'interno delle mura. A cavallo andavano anche gli ecclesiastici, almeno quelli degli ordini superiori, e gli stessi papi. La diffusione dei cavalli come mezzo di trasporto è confermata indirettamente dai loro resti ossei nei depositi archeologici, che proprio nel IX Sec. divengono frequenti e non mostrano tracce di macellazione o di lavoro agricolo. Le dimore dei nobili, lo stesso Laterano, dovevano avere le proprie scuderie, così come molti monasteri.” (Delogu)
“Il Colosseo, di proprietà dei Frangipane, era abitato da centinaia di persone che vivevano in promiscuità e insieme agli animali. Nascevano i nomi nuovi del popolino, spesso legati a nomignoli sarcastici, come ad esempio i Collotorto, i Cinquedenti, i Boccapecora, i Centoporci, i Cortabraca.
In questi anni si assiste ad un progressivo abbandono delle zone del Foro a favore di quelle del Campo Marzio, nell'ansa del fiume.” (Vincenzo RG)
Già nell'830 pirati saraceni avevano devastato le aree abitate della campagna romana, giungendo fino alle basiliche di San Pietro e San Paolo e penetrando fino a Subiaco, dove vennero distrutti l'abitato e il Monastero. Sedici anni dopo l'attacco fu ripetuto, con maggiore violenza: nella notte tra il 24 e il 25 agosto dell' 846 i pirati saraceni, dopo aver attaccato e saccheggiato Centumcellae, Porto e Ostia, si spinsero fino a Roma.
Non riuscendo a penetrare all'interno delle mura cittadine, distrussero e depredarono i dintorni della città saccheggiando per la seconda volta le basiliche di San Pietro e San Paolo. San Pietro era difesa da una guarnigione di soldati composta da Franchi, Longobardi, Sassoni e Frisoni che, nonostante un'accanita resistenza, venne completamente sterminata.
Nell'anno 849 si seppe che i saraceni stavano allestendo una nuova flotta che avrebbe attaccato nuovamente Roma. In questa occasione Gaeta, Napoli, Amalfi e Sorrento misero a disposizione le proprie navi, le quali si posizionarono tra Ostia e la foce del Tevere. Condotta da Cesario, la flotta andò all'attacco appena vide all'orizzonte le vele delle navi nemiche sbaragliandole e facendo molti prigionieri. Durante lo scontro, definito come battaglia di Ostia, molte navi saracene furono affondate mentre le restanti, anche a causa di un'improvvisa tempesta, fuggirono. (Wiki)
“Di monasteri ormai se ne cita più di una quarantina, ma di essi v’era in Roma un numero assai
maggiore. In vicinanza del san Pietro s’ergevano cinque conventi, ed erano quelli di Stefano
Maggiore o Protomartire (detto anche di Catagalla Patrizia), di Stefano Minore, di Giovanni e
Paolo, di Martino e il chiostro di Gerusalemme. In prossimità del Laterano si menzionano: Pancrazio, Andrea e Bartolomeo col nome di Ilonori che è già cognito all’Anonimo di Einsiedeln,
Stefano, e un convento di monache dal nome di Sergio e Bacco. Presso a santa Maria Maggiore erano questi conventi: Andrea, detto anche di Catabarbara Patrizia che forse è identico di quello di Andrea in Massa Juliana; Cosma e Damiano, Adriano, detto anche di san Lorenzo. Tutti avevano l’addiettivo ad Praesepe. Vicino al san Paolo fuor delle porte, stava il convento di Cesario e Stefano col soprannome ad quatuor angulos; prossimo al san Lorenzo fuor delle porte, era quello di Stefano
e Cassiano. Altri monasteri romani erano i seguenti : Agata super Suburram, Agnese fuor di porta
Nomentana, Agapito presso il Titolo di Eudossia, Anastasio ad Aguas Salvias, Andrea nel Clivus
Scauri, Andrea presso i santi Apostoli, Bibiana, Crisogono nel Transtevere, un convento presso il
Caput Africae, il chiostro de Corsas o Caesarii nella via Appia, il convento de Sardas probabilmente
situato presso al san Vito, Donato in vicinanza alla santa Prisca sul monte Aventino, Erasmo sul Celio, Eugenia fuor di porta Latina, Eufemia e Arcangelo in prossimità alla santa Pudenziana, il convento duo Furna probabilmente in Angone nell’odierna piazza Navona, Isidoro che era forse sul monte Pincio, Giovanni sull’ Aventino, il convento de Lutata, quello detto Laurentius Pallacìni in vicinanza al san Marco, il convento appellato Lucia Renati, in Renatis o de Setenatìs, Maria Amòrosii che è probabilmente lo stesso di quello chiamato Ambrosii de Maxima nel Forum Riscarium, Maria Juliae nell’ isola Tiberina. Vi erano inoltre : un convento di monache dedicato a Maria in Campo Marzo e 1’altro di Maria in Capitolio, i quali due, sebbene non menzionati nel catalogo delle fondazioni di Leone III, erano a quel tempo per certo di già fondati: Michele, ignoto; il chiostro Tempuli Silvestro (de Capite), santo Saba o Cella Nova, il convento Semitrii, ignoto ; quello di Vittore presso san Pancrazio nella via Àurelia.
In quell’età non s’ erano ancora costituite le venti abbazie, che più tardi sorsero dai conventi venuti a numero sì grande da renderne difficile il conto. La loro copia crebbe ognor più, e sulla fine del secolo decimo affermavasi che in Roma v’aveva venti conventi di monache, quaranta di frati e sessanta di canonici ossiano preti viventi sotto regola claustrale.” (Gregorovius)
N Basiliche e chiostri di Trastevere, case medievali al Foro Romano, Clivo di Scauro.
X-XI Sec. Tre inondazioni del Tevere
1044 Terremoto
1084 Sacco dei Normanni di Roberto il Guiscardo.
Pop. Urbe ≃ 50.000 – Italia ≃ 8.000.000 – Europa ≃ 40.000.000
Nei Secoli X e XI Roma era sprofondata nel suo periodo più buio: pontificati della durata di un paio di settimane (49 Papi in due Secoli), congiure, assassinii, resero la città mal governata e teatro di episodi delittuosi, a volte raccapriccianti.
Guglielmo di Malmesbury, rivolgendosi a papa Gregorio VII non ha peli sulla lingua: “Cosa c’è nella città di Roma un tempo sede della santità? Nel Foro vagano sicari e tutto quel genere di uomini infidi e inclini al male. Adesso sul sepolcro dei santi si vanno a ubriacare?”
Bernardo da Chiaravalle, abate e teologo francese dell'ordine cistercense, era dello stesso avviso.
L'espressione saeculum obscurum fu coniata in tempi moderni per caratterizzare come cupo e
disastroso il periodo della storia del papato che va dall'888 (quando l'autorità imperiale venne meno,
gettando l'Europa nel caos politico) al 1046 (cioè l'inizio della riforma gregoriana), con rare
eccezioni, come quella di papa Gerberto di Aurillac (Silvestro II, primo papa francese) che insieme
all'imperatore Ottone III - duramente osteggiati dai Crescenzi - cercò di porre un freno a simonia
(il commercio peccaminoso di beni sacri) e nicolaismo (l'atteggiamento di opposizione al celibato
ecclesiastico), frequenti nella Chiesa di fine millennio.
“Nella Roma del Mille, i ricchi erano pochi ed i poveri molti, e questi ultimi sopravvivevano grazie
alle elemosine dei primi, che le donavano ai poveri solo per paura di finire all’inferno e per salvarsi
l’anima”. (Krautheimer)
“Col termine Romei s'indicavano, in età medievale, i pellegrini cristiani che da ogni parte d'Europa si recavano a Roma per venerare nella sua basilica il sepolcro di Pietro e la basilica in cui erano sepolte le spoglie di Paolo. La via più nota da essi percorsa era la via Francigena che, da oltralpe, attraversava di preferenza il passo del Monginevro per poi intraprendere il cammino verso la Città Eterna. Se il più antico resoconto d'un pellegrinaggio a Roma viene datato al 990, la pratica di recarsi a visitare luoghi santi della Cristianità risale a molto tempo prima.” (Wiki)
“Immenso era ancora il numero di edifici antichi, magnifiche rovine che mostravano ad ogni passo delle generazioni dei vivi la grandezza del passato, la meschinità del presente. (…) I pontefici, che in un primo tempo avevano considerato i monumenti proprietà dello Stato, presto non ebbero più né voglia, né tempo, né potere sufficienti per curarsi della loro esistenza.
Ai Romani fu concessa libertà di saccheggio; i preti trascinavano colonne e marmi nelle loro chiese, nobiltà e clero costruivano torri su splendidi monumenti antichi, gli artigiani aprivano nelle terme e nei circhi fucine, filande e botteghe. Quando il pescatore, il macellaio o il fornaio esponevano la loro merce, questa si presentava su lastre di marmo ove un tempo assisero i dominatori del mondo. Sarcofaghi erano sparsi dappertutto e usati come serbatoi d'acqua, mastelle per il bucato, trogoli per i maiali. Il desco di un calzolaio o del sarto era il cippo di un illustre Romano o una lastra alabastrina su cui nobili matrone un tempo spargevano le loro gemme. Su tutte le piazze, per tutte le vie, lo sguardo cadeva su opere d'arte ancora erette, oppure cadute o mutilate. (...)
Ma la capacità di apprezzare l'arte era andata perduta, e gli stessi Romani consideravano tutto ciò come materiale da costruzione. Da secoli Roma era un'immensa cava, dove si gettavano i marmi
più splendidi per fonderli e ricavarne calcina. Tutti saccheggiavano e distruggevano Roma Antica, sfasciavano, frantumavano, bruciavano, trasformavano, senza mai riuscire tuttavia a darle fondo.”
I palazzi imperiali del Palatino erano ancora visibili, colossali rovine folte di sculture d'ogni specie. Parecchie sale avevano ancora alle pareti preziosi rivestimenti, altre erano adorne di tappezzerie intessute d'oro, stanze da letto con le pareti rivestite di sottili lamine d'argento e piombo. Il colle Palatino doveva essere allora scarsamente abitato, poiché vi sorgevano solo poche e piccole chiese. Il maestoso Settizonio, proprietà del convento di San Gregorio era già stato trasformato in fortezza. I monaci di quel cenobio possedevano anche l'arco di Costantino, già sopraelevato e trasformato in torre. (…) Il Circo Massimo ed il Colosseo, benchè maltrattati dalle intemperie, conservavano gran parte dei muri esterni e delle file di sedili. Ovunque templi, portici, basiliche erano sparsi in grandiosa desolazione. Il Romano del X Secolo si aggirava fra resti senza numero: colonne, architravi e figure marmoree, e di fronte a quella solitudine affollata di leggende, a quella frantumata maestà, doveva provare una commozione inesprimibile. Un profondo silenzio copriva i Fori Imperiali. Il Foro di Augusto era ridotto a un tale ammasso di rovine e di alberi che il popolo lo chiamava Hortus mirabilis. Sopra le maestose rovine delle biblioteche e delle basiliche Ulpie si ergeva ancora, fermissima, la colonna Traiana. (…) Campo Marzio era un mondo di meraviglie mezzo sepolto dalle macerie. Vi abitavano, sotto le buie volte delle rovine, uomini in condizioni miserrime. Sui mucchi di detriti essi piantavano il cavolo e la vite.
Dai cumuli di pietre si formavano vicoli che conducevano a chiese, dalle quali traevano origine e nome. Nel Campus Agonale, l'odierna Piazza Navona, sui marmi dello Stadio di Domiziano era stata già costruita più di una chiesa: su un lato la diaconia di Sant'Agnese in Agone; di fronte la parrocchia di Sant'Apollinare, eretta probabilmente sulle rovine del Tempio di Apollo; anche il convento di Sant'Eustachio aveva delle proprietà in questa regione.” (Gregorovius)
Dal tempio circolare di Ercole Vincitore venne ricavata la chiesa di S. Stefano Rotondo, poi rinominata S. Stefano delle Carrozze per non confonderla con l'omonima chiesa del Celio e quindi Santa Maria del Sole. E tutt'intorno il disabitato, fino alle grandi mura all'estremo Est.
“Intorno a Santa Maria Nova, nelle grandiose rovine del tempio di Venere e Roma, nella Domus Aurea neroniana e nel Colosseo, absidi e cryptae erano affittate a persone di ogni ceto: un fabbro, un macellaio, un impiegato ecclesiastico, alcuni fabbricanti di calce, tutti cittadini rispettabili (viri honesti). Verso la metà del X Secolo quasi tutti i vani esistenti nelle sostruzioni del Colosseo erano affittati: un'intera crypta coperta a volta, con un mezzo pilastro di travertino da ogni lato, confinante su un lato con il lotto di Guido De Berta, sull'altro con la crypta di Doda, sul terzo con la crypta e il lotto di Sangiorectus e sul quarto con la pubblica strada, il che significa che si trattava di un fornice esterno. Ancora, metà di un vano coperto a volta, a un solo piano (probabilmente prospicente l'arena), con metà del cortile antistante, con ingresso e uscita comuni, confinante su un lato con l'altra metà dello stesso vano, e con quello intero appartenente a un Giovanni, sull'altro con la crypta di Pietro Beccli, sul terzo lato con quella di Sposa e sul quarto con l'ingresso comune. Anche l'arena era occupata da abitazioni: in un atto del 1060 sono descritte una crypta divisa in due piani e metà di una casa a due piani in mattoni e legname, con antistante la scala di marmo adiacente alla chiesa del Salvatore, con un piccolo orto contiguo e metà di un frutteto sul retro con alberi di melo. La chiesa citata è quella di san Salvatore de Rota, situata nell'arena del Colosseo. Alcuni dei vani finora descritti, anche se divisi in due, avevano una rozza facciata accessibile mediante una scala esterna con un cortiletto davanti. Le dimensioni riportate nei contratti di compravendita corrispondono infatti a quelle delle arcate esterne del Colosseo. Altri vani devono essere stati utilizzati come depositi, botteghe artigiane o fornaci da calce.
Analogamente, a partire dal Duecento, anche le sostruzioni del Circo Massimo furono utilizzate per scopi abitativi dalla comunità monastica di san Gregorio Magno che ne era proprietaria. Anche le rovine intorno a santa Maria Nova e le case in esse esistenti appartenevano alla vicina chiesa. In generale, fin dal X Secolo fino al medioevo avanzato i maggiori proprietari immobiliari furono le chiese e i monasteri, e solo a partire dal Trecento sembra che ad essi siano progressivamente subentrate le confraternite in ascesa, come quella del Sancta Sanctorum e dell'ospedale di san Giovanni in Laterano.” (Krautheimer)
N Basilica dei SS. Quattro Coronati, Basilica di san Clemente al Celio, tempio di Ercole Vincitore, tempio di Portuno.
XII Sec. 1143 nasce il Comune di Roma.
Due inondazioni del Tevere.
Ricostruzioni/interramenti di papa Pasquale II.
Costruzione di torri baronali e fortificazioni.
“Durante la prima metà del XII Secolo le insistenti spinte autonomistiche cittadine portarono alla renovatio Senatus, ossia al rinnovamento dell'antica istituzione del Senato, ricreato dal popolo romano nel 1143, in opposizione al potere del papa, delle gerarchie ecclesiastiche e delle grandi famiglie baronali. La nuova assemblea si componeva di 56 membri (forse 4 per ogni rione cittadino). Il nuovo organismo, cercò di ritagliarsi un ruolo nella contesa tra papato e impero, ma era privo di un effettivo potere.
Il Palazzo Senatorio in Campidoglio divenne il municipio della città, il più antico al mondo.
Nacquero i Rioni, i quali portavano i nomi delle contrade rappresentative. In questo periodo i confini non erano molto chiari: spesso le abitazioni erano concentrate al centro di un determinato rione e le zone di confine erano praticamente deserte, quindi non era nemmeno necessario che i
confini fossero delineati con precisione.
Regio Montium et Biberate (Rione I Monti),
Regio Trivio et Vielate (Rione II Trevi),
Regio Columpne et sancte Marie in Aquiro (Rione III Colonna),
Regio Posterule et sancti Laurentii in Lucina (Rione IV Campo Marzio),
Regio Pontis et Stortichiarioram (Rione V Ponte),
Regio sancti Eustachii et vinee Tedemarii (Rione VIII Sant'Eustachio),
Regio Arenule et Chacabariorum (Rione VII Regola),
Regio Parionis et sancti Laurentii in Damaso (Rione VI Parione),
Regio Pinee et sancti Marci (Rione IX Pigna),
Regio sancti Angeli in Foro Piscium (Rione XI Sant'Angelo),
Regio Ripe et Marmorate (Rione XII Ripa),
Regio Campitelli in sancti Adriani (Rione X Campitelli),
Regio Transtiberim (Rione XIII Trastevere).
Roma in epoca comunale divennne turrita e fortificata, ma anche ricca di chiese e conventi. L'affermarsi delle ricche famiglie baronali, spesso in guerra fra loro, aveva ridefinito il potere nella città.
Arnaldo da Brescia fu una figura emergente della renovatio Senatus come riformatore religioso di notevole eloquenza e con una forte avversione per l'istituzione tradizionale ecclesiastica; egli si pose quindi a guida del movimento antipapale e autonomistico romano.” (Wiki)
“La riapertura della zecca per iniziativa del senato cittadino alla fine del XII secolo e l’aumentata circolazione monetaria rappresentarono per la città un evento importante”. (A. Molinari)
“Pasquale II, primo papa dopo quindici anni a risiedere stabilmente a Roma, restaurò e ricostruì ad un livello più alto diverse chiese dell'Urbe. In particolare la basilica dei SS. Quattro Coronati, distrutta nel Sacco dei Normanni. La basilica paleocristiana di S. Clemente, fu interrata e ricostruita ad una quota più alta di circa 4 metri. Inoltre si provvide il rialzamento di 2-4 metri di molti dei livelli stradali più frequentati della città, comprese le aree adiacenti.” (Guidobaldi)
“A Pasquale II si deve però la distruzione del Mausoleo dei Domizi–Enobarbi, che ancora accoglieva i resti dell'imperatore Nerone, da lui - in virtù della storiografia cristiana antica - considerato un anticristo con il falso potere di risorgere; al posto del sepolcro distrutto fu eretta una cappella, nucleo originario della Basilica di Santa Maria del Popolo”. (Wiki)
“A livello archeologico si assiste in varie zone della città all'abbandono degli insediamenti sorti nel IX e nel X secolo, rapidamente obliterati da potenti strati di interro, tanto che le insulae venivano abitate dal primo piano in su. L'anno 1000 rappresenta realmente uno dei momenti cruciali attorno
a cui si organizza la vicenda delle trasformazioni topografiche e urbanistiche della città e può essere
considerato il punto d'avvio del processo di formazione della città bassomedievale e rinascimentale, la cui struttura urbana, nonostante le devastazioni del XIX e XX secolo, è ancora alla base della città di oggi.” (Meneghini-Santangeli)
“Che i rialzamenti di terreno dei singoli edifici citati non fossero solo limitati al perimetro di essi, ma fossero estesi ad aree assai più vaste, era certamente prevedibile e, comunque, è ben documentabile anche in dettaglio in base agli spessori dell’interramento ricavabili in punti
pressoché contigui soprattutto nella vastissima zona dei Fori.
Oltre ai casi di S. Adriano (3,40 m ca.), l’Oratorio dei SS. Quaranta poi S. Maria de inferno (4 m ca.), i Palazzetti del Foro Transitorio (3 m ca.) e SS. Quirico e Giulitta (2 m ca.), se ne possono infatti indicare altri in zone intermedie e limitrofe, con analoghe – o semmai complementari – situazioni di interramento e con conseguente abbandono di livelli o strutture altomedievali e/o ricostruzione di nuovi edifici ai nuovi livelli. Già nel IX e X secolo con i templi, i portici e le strutture marmoree che venivano abbattute al suolo per farne calce nelle calcare, saranno certamente perite molte delle epigrafi che ne permettevano l’identificazione. Gli interramenti notevoli del XII secolo, che debbono aver contribuito a far scomparire anche i basamenti degli edifici, le eventuali iscrizioni cadute e i tracciati viari originari, avranno dato infine un definitivo incremento alla disgregazione delle conoscenze dell’antica topografia, che, proprio allora, sembra passare dalla realtà alla leggenda, con i nomi antichi tramutati in formulazioni deformate o inventate e con i fatti storici sostituiti da assurde costruzioni favolistiche, in un nuovo quadro culturale ormai pienamente medievale.” (Guidobaldi)
XIII Sec. Due inondazioni del Tevere
Ristrutturazione di molte chiese. Si diffonde l'immagine del crocefisso.
1231 Terremoto
Popolazione ≃ 80.000
“L'evoluzione politica della Chiesa rinforzò il potere (specie economico) dei Cardinali e quindi
delle loro famiglie e delle loro clientele, che si arricchirono enormemente; questo fenomeno provocò l'emergere di un nucleo ristretto di lignaggi, quello dei Baroni, che si distaccarono dal resto
dell'aristocrazia e per più di un secolo dominarono la città e lo Stato Pontificio.” (Vauchez)
Tracotanza e soprusi disegnano una città parallela, che vive di immensi giri di affari, ma anche di violenza e corruzione: nel XIII Secolo acquistavano potenza gli Orsini, i Savelli, i Cenci e i Colonna, poi c’erano i Conti, gli Annibaldi, i Caetani, i Mattei.
“Queste famiglie avevano almeno una torre/fortezza per difendere le rispettive zone di influenza:
gli Orsini a Castel Sant'Angelo, i Colonna divengono padroni del Mausoleo di Augusto, i Savelli
del Teatro di Marcello, i Caetani della via Appia e gli Annibaldi di buona parte del Colosseo.
I Conti optano per la costruzione di due enormi torri, ancora oggi esistenti, attorno alle quali si
agglomerano altri edifici collegati da una alta muraglia difensiva. Altri rami degli Orsini e dei
Colonna decidono di costruire le loro fortezze sulle alture di Montegiordano e Montecitorio.
Nella maggior parte dei casi si collegano edifici già esistenti in modo da formare un blocco
fortificato chiamato castrum. Ancora, gli Orsini si appropriano anche di un'altra grande area: attorno
al Teatro di Pompeo nascono due potenti fortilitia, conosciute con i nomi di Arpacasa, vicina a
Campo de' Fiori e Pertundata, sul lato dell'odierna via Arenula. Questi due complessi avranno
un'unica cinta muraria e saranno dotati di altre tre torri. I castra hanno superfici paragonabili ai
villaggi fortificati baronali del Lazio e in caso di conflitti sono pronti ad accogliere centinaia di
uomini. Il 26 maggio del 1312 è ricordato per la cruenta battaglia fra Orsini e Colonna che vide
l'imperatore Enrico VII fermato prima di entrare nel Borgo.” (Vigueur)
Brancaleone degli Andalò, di nobile famiglia bolognese, nel 1252 fu nominato Capitano del popolo dal Comune di Roma per trovare le contromisure alla violenta anarchia dei Baroni.
Egli tenne testa agli Annibaldi e ai Colonna e si presume che fece abbattere ben 140 torri delle 300 che si ergevano sulla città e rinpinguò le casse comunali esigendo tutte le tasse arretrate. Il simbolo dell’arroganza baronale veniva per una volta decisamente colpito. Brancaleone morì in circostanze misteriose a 38 anni.
“I risultati raggiunti dallo sviluppo economico romano tra XII e XIII secolo furono veramente significativi, e permettono di affermare che anche a Roma si era avviata una forma di rivoluzione commerciale paragonabile a quella allora in atto in tutta l’Europa mediterranea. I trattati stabiliti negli anni 1151, 1165-1166 e 1174 con città importanti e a fortissima vocazione commerciale, come Pisa e Genova, rappresentano in questo senso testimonianze importanti per la comprensione e la valutazione dell’inserimento dei romani nel giro dei grandi traffici internazionali.
Protagonisti romani della stipulazione di tali accordi furono il comune capitolino e una nuova organizzazione corporativa, articolata e potente, che regolava e tutelava i traffici con a capo i consules mercatorum et marinariorum. Tali trattati rivelano inequivocabilmente come i mercanti
romani, attraverso il controllo dell’istituzione municipale, potessero contare sul controllo di gran parte del litorale laziale e su una ampia libertà di commercio e totale sicurezza per i loro traffici lungo tutta la costa tirrenica centrale e settentrionale, grosso modo da Gaeta a Ventimiglia, e nello stesso tempo evidenziano la totale autonomia dei romani dal papa, almeno per quanto riguardava alcune determinanti decisioni in materia di alleanze politiche e commerciali. Oro e argento, tessuti più o meno pregiati, armi e armature, spezie, canapa, stoppa, granaglie, legname, e molto, moltissimo denaro. Le loro navi incrociavano da Marsiglia, a Napoli, a Palermo; le loro merci, provenienti dal centro Europa, transitavano per Arles, Gavi e Voltaggio alla volta dei porti di Nizza e Genova. Troviamo mercatores romani in Inghilterra e in Irlanda, in Belgio, in Svizzera e in Francia.
Roma era una città dove circolava – allora molto più che altrove – una grandissima quantità di denaro liquido e i cittadini romani che ne disponevano potevano sfruttare la necessità di liquidi di quanti in un numero sempre crescente si recavano presso la corte del papa per ottenere giustizia, favori e concessioni di vario tipo. A partire dalla metà del XII secolo si moltiplicano le attestazioni di vescovi e abati, o di rappresentanti di istituzioni religiose e laiche, costretti a contrarre onerosi prestiti dai mercatores romani per essere certi di raggiungere i risultati sperati durante la loro missione a Roma. E dall’ultimo quarto di tale secolo appaiono poi sempre più numerose ed ingenti anche le somme concesse agli stessi pontefici da parte dei prestatori romani.
Gregorio IX fu forse il papa che con maggior decisione offrì protezione ai mercatores romani, giunti ormai al culmine di un processo di crescita che aveva portato le loro attività a livelli estremamente
elevati in ambito internazionale. In contropartita il pontefice aveva potuto ottenere in prestito grandi somme di denaro; alla sua morte nel 1241 egli lasciò una ingentissima quantità di debiti insoluti,
un’eredità così problematica per il suo successore, Innocenzo IV, da costringerlo ad abbandonare Roma per sfuggire alle minacce dei creditori romani.” (Vendittelli)
I Mirabilia Urbis Romae, facenti parte della letteratura periegètica (il periegèta presso gli antichi greci era la persona incaricata di guidare i forestieri nella visita di templi e monumenti), erano l'equivalente delle moderne guide di viaggio, che servivano ai pellegrini che si recavano a Roma e li guidavano per tutto il percorso. I primi Mirabilia nascono nel XII secolo, sono manoscritti e rimarranno tali fino al Barocco, quando inizieranno ad essere stampati.
“Tante sono le torri e i campanili da sembrare spighe in un campo di grano, tante le costruzioni dei palazzi che a nessun uomo riuscì mai di contarle”. Questo scriveva mastro Gregorius, un colto
inglese di Oxford, contemplando la grande città dal monte Gaudio (Monte Mario) nel XIII Secolo.
L'Urbe è protetta da una possente cinta muraria lunga quasi 10 leghe (20 Km.) e alta più di 3 pertiche (8 metri). Vi si accede attraverso diciotto porte di aspetto monumentale, e nel suo perimetro si contano trecentottantuno torri di guardia. Queste mura, dette aureliane, a Ponente seguono il fiume cingendo il rione di Transtevere fino a porta San Pancrazio; a Oriente, con un percorso ondeggiante, corrono su tre colline parallele: il monte Cavallo o Quirinale, il monte Viminale e il monte Esquilino; i primi due, poco abitati, sono tenuti a vigne e orti, e si incontrano sovente ruine di antiche fabbriche invase dalla natura: prime fra tutte per grandiosità le terme Diocleziane. Sull'Esquilino si erge la basilica di Santa Maria Maggiore, seguita da un vicus che scende verso la piana, sotto due montagnole, l'Oppio e il Fagutale, fino alla Suburra. Sulla riva destra del Tevere dominano la vista Castel Sant'Angelo e la basilica Sancti Petri con il suo Borgo, protetti dalle mura leonine; più giù, come detto, l'affollato rione di Transtevere e alle loro spalle un irto colle, il Gianicolo. Proprio davanti al rione transteverino sta l'isola di San Bartolomeo.
La riva sinistra e la regione retrostante sono dette in Campo Marzo: una grande piana disegnata
dall'ansa del fiume che sta diventando la parte più abitata dell'Urbe.
Il limite orientale del Campo Marzo è la via Lata, una lunga strada dritta che taglia la città. Dal disabitato di porta Flaminia essa arriva alla basilica di San Marco fin sotto al Capitolio, con le rovine del tempio di Giove, il palazzo senatorio, il monastero di Santa Maria in Capitolio e la Rupe Tarpea. Ai suoi piedi si erge la colonna Traiana, con la minuscola chiesa di San Niccolò de Columna e la contrata di campo Carleo. Dietro al Capitolio affiorano le rovine del Foro Romano, oramai interrato e incolto. Rimangono solo i suoi archi trionfali mezzo sepolti e qualche statua mutilata fra le ruine e il fango. Adiacente v'è il caseggiato detto in campo Torreclano per le torri baronali che anche lì sorgono. E ancora orti e vigneti, di proprietà delle chiese e dei monasteri vicini. Lasciati indietro il Foro e la collina della Velia ecco il Coliseo, maestoso anfiteatro di travertino, il più grande che si possa vedere al mondo. Ora è un'insieme di abitazioni ricavate nelle cavee e negli ambulacri e il resto cava per materiale da costruzione.
Meridionali al Coliseo tre modeste alture: il monte Palatino, un tempo dimora degli imperatori, il monte Aventino e il Celio, dove tra prati e vigne sorgono le prime storiche basiliche cristiane.
Il Campus Lateranensis, con le sue fabbriche, situato sulla propaggine orientale del Celio, ai confini dell'Urbe, è sede della residenza papale; attorno si è formato un vivace borgo abitato, lontano dalla città. Il papa per recarsi al Vaticano impiega quasi due ore di viaggio in carrozza. Quando si va in processione da San Pietro fino a San Giovanni in Laterano si segue il vecchio itinerario che scorre lungo la via Papalis:
“Dal Ponte Elio si passa per la Via dei Banchi Vecchi e la Via del Pellegrino fino al gruppo degli edifìzì Pompeiani, poi per il Circo Flaminio sino al piè del Capitolio. Dopo l'arco di Severo, l'itinerario passa per il Foro Romano e la Sacra Via: restano a destra le chiese di S. Maria antiqua e S. Teodoro, a sinistra quelle di SS. Cosma e Damiano e di S. Pietro. Quest'ultimo nome si deve separare senza dubbio dal seguente ad vincula,e deve intendersi la chiesuola dei due apostoli Pietro e Paolo in silice, fondata già nel VI secolo dinanzi il tempio di Venere e Roma, ma scomparsa quando ivi presso venne fondata la basilica di S. Maria Nova.” (Itinerario di Einsiedeln, IX Sec.)
N Torri baronali romane, Parco del Palatino, san Lorenzo fuori le mura, Mausoleo di Cecilia Metella.
XIV Sec. Cattività avignonese dei papi (1309-1377)
Due inondazioni del Tevere
1349 Terremoto molto forte (scosse per 40 giorni)
1350 Epidemia della Peste nera
Clemente V, papa francese, decise di stabilire provvisoriamente la sede papale prima a Poitiers,
poi ad Avignone, lasciando Roma in balia dell'aristocrazia baronale.
Ci vollero sei pontificati per il ritorno del papa a Roma; in quest'opera di convincimento fu molto attiva Caterina da Siena. Gregorio XI, nato Pierre Roger de Beaufort, fu l'ultimo dei papi di Avignone, poiché nel 1377 riportò a Roma la sede papale.
“La peste nera si diffuse in fasi successive dall'altopiano della Mongolia, prima attraverso la Cina e la Siria e poi anche alla Turchia asiatica ed europea, per poi raggiungere la Grecia, l'Egitto e la penisola balcanica. Nel 1347 arrivò in Sicilia e da lì a Genova. Nel 1348 aveva infettato la Svizzera e tutta la penisola italiana, risparmiando parzialmente il territorio di Milano; dalla Svizzera si allargò quindi alla Francia e alla Spagna. Nel 1349 raggiunse l'Inghilterra, la Scozia e l'Irlanda. Infine nel 1353, dopo aver infettato tutta l'Europa, i focolai della malattia si ridussero fino a quasi scomparire, restando però occasionalmente endemici. Secondo studi moderni, la peste nera uccise almeno un terzo della popolazione del continente, provocando verosimilmente quasi 20 milioni di vittime.” (Wiki) “Quegli eventi, della cui cupa violenza i cronisti d’Italia ci hanno descritto i termini e noi moderni non possiamo che coglierne solo una parte dell’incidenza psicologica che ebbero sull’uomo del Trecento, dovettero scatenare negli uomini dell’epoca le più profonde reazioni, i più orgogliosi, quanto biologici, istinti di sopravvivenza. La Cronica dell'Anonimo Romano (la cui identità era secondo il Billanovich quella di Bartolomeo di Iacovo da Valmontone) ha tra le sue motivazioni anche questa non dichiarata volontà di rinascita e, come hanno suggerito Anselmi e Miglio, una non celata volontà di interpretare quel nuovo spirito cittadino che proprio allora faceva
le sue timide uscite.” (Conti)
“La Cronica dell'Anonimo romano era originariamente composta da 28 capitoli e la sua stesura risale al 1357. Il capitolo XVIII, quello inerente alla storia di Cola di Rienzo, è il più grande dell'opera, e sin dal Seicento fu pubblicato a parte con il titolo di Vita di Cola di Rienzo. Questo maggior interesse che gli studiosi ebbero nei confronti della parte dell'opera dedicata a Cola di Rienzo impedì che parte della restante opera fosse tramandata ai posteri. Per questa ragione, degli originali 28 capitoli, 9 sono andati perduti. Gli eventi narrati nell'opera coprono un arco di anni che va dal 1325 al 1357 e furono vissuti in prima persona dall'autore; questo garantisce l'accuratezza e l'affidabilità di quanto da lui riportato. Il linguaggio dell'opera è il dialetto romanesco medievale, descritto da alcuni studiosi, per l'uso che ne fa l'autore, come dotato di una purezza raramente vista in altre forme linguistiche regionali. L'opera quindi è importante anche dal punto di vista linguistico, perché fornisce un affresco vivido di com'era il volgare romanesco prima di essere influenzato dal dialetto fiorentino. Studiosi come il Contini e il Gadda hanno elogiato l'abilità dell'autore nel rappresentare la psicologia umana e nel descrivere con la massima vivacità gli eventi narrati, considerando l'opera dotata di un'eleganza espressiva superata nella prosa del Trecento solo da Giovanni Boccaccio.” (Wiki)
“Queste strade strette e affollate, difficilmente praticabili, erano rese ancora più anguste dalle sporgenze degli edifici e dai portici; erano ingombre di rifiuti provenienti dalle botteghe di macellai e ciabattini e vi andava a finire anche la spazzatura delle case, insieme con le acque di scarico dei tintori e dei conciapelli. La manutenzione e la pulizia erano affidate a un'autorità municipale, i magistri stratarum, la cui esistenza è documentata senza interruzione dal 1233 fino a tutto il Settecento. (…) I loro compiti e i loro poteri, continuamente ampliati e precisati, rimasero in sostanza quelli stabiliti nel 1233: decidere tutte le questioni riguardanti le mura, le case, le strade e piazze pubbliche e le loro parti, dentro la città e fuori, e le costruzioni in genere. In particolare spettava ad essi evitare che portici e banchi di vendita occupassero le strade e le piazze con sporgenze maggiori dei limiti prefissati; per piazza San Pietro e per la ruga francigena, la strada che
dava accesso alla piazza da Nord, il limite era di un metro e mezzo, mentre era minore per le strade più strette. I magistri stratarum avevano poi il compito di controllare gli allineamenti degli edifici e i confini dei lotti fabbricabili; di far rimuovere i rifiuti dai lotti non edificati; di costringere ad esempio gli Ebrei proprietari di una tintoria ad aprire una cunetta di fronte alla loro bottega per allontanare le acque di rifiuto. Dovevano inoltre impedire che una parte della strada fosse occupata per usi privati, vietare che grondaie e scarichi versassero sulle strade, far rimuovere steccati o altre costruzioni provvisorie, mantenere puliti gli acquedotti, curare che le strade fossero lavate ogni settimana e i rifiuti scaricati nel Tevere, e infine liberare dall'occupazione di privati le proprietà pubbliche, come vigneti, orti, archi e ponti, edifici antichi e mura.
Possiamo farci così un'idea delle condizioni delle strade nella Roma medievale: ingombre di rifiuti, non pavimentate e quindi impraticabili in caso di pioggia, allagate di tanto in tanto dalle piene del Tevere, congestionate dagli animali da carico e dai portatori, rese più anguste da portici, chioschi e steccati, affollate di artigiani al lavoro di fronte alle loro botteghe e di donne intente a lavare e a cucinare all'aperto.” (Krautheimer)
Tre quarti di Roma entro le mura era ancora dominata dal verde, le terre allagate o fangose erano ovunque e il pericolo della malaria era reale.
N Foro di Traiano, Mercato di Traiano, vie del Campo Marzio.
XV Sec. Pop. ≃ 50.000
Tre inondazioni del Tevere
1450 Ricostruzioni/interramenti documentati
1480 Abbattimenti di Sisto IV, allargamento delle strade in campo Marzio
“Martino V Colonna fu il primo papa che dopo la parentesi avignonese poté occuparsi di un rilancio di Roma anche in termini monumentali e artistici. I primi cantieri a venire aperti riguardarono essenzialmente i due centri principali del Laterano e del Vaticano, dove venne trasferita la residenza papale (pur trascorrendo gran parte della sua vita da Pontefice nel palazzo di famiglia ai Santi Apostoli che provvide a restaurare profondamente), iniziando la trasformazione della zona oltre il Tevere da area periferica a immenso cantiere. Il successore Eugenio IV continuò l'opera di rinnovamento rinascimentale della città con il ripristino di numerose basiliche. Ma fu con Niccolò V che le trasformazioni episodiche dei suoi predecessori assunsero una fisionomia organica, preparando il terreno agli ambiziosi sviluppi successivi. Si segnala una consistente migrazione di “maestri” costruttori lombardi, di grande competenza e abilità, menzionati negli archivi notarili del XV-XVI secolo.
Dopo aver ripristinato le mura leonine nonché quelle di Castel Sant'Angelo, il pontefice avviò i lavori per la costruzione di un nuovo acquedotto. Niccolò V era consapevole dell'importanza dell'approvvigionamento idrico della città: la fine della Roma antica veniva spesso spiegata con la distruzione dei suoi magnifici acquedotti, avvenuta del VI secolo da parte dei popoli barbari.
Nel Medioevo i romani dipendevano per la fornitura d'acqua da pozzi e cisterne, mentre i poveri sfruttavano le acque del Tevere. L'acquedotto dell'Aqua Virgo, originariamente costruito da Marco Vipsanio Agrippa nel I secolo a.C., venne restaurato. I romani poterono così attingere acqua fresca in un nuovo bacino, progettato da Leon Battista Alberti, che fu il predecessore della Fontana di Trevi. Il pontefice ordinò anche la costruzione di una fontana nella Piazza di Santa Maria in
Trastevere, dove non esisteva più un punto di raccolta di acqua dall'antichità.” (Wiki)
“I vari interramenti e ricostruzioni ad un piano più alto di strade ed edifici avvenuti nei secoli precedenti hanno formato una stratificazione di diversi metri: il primo livello corrisponde al piano di posa delle eventuali lastre marmoree di pavimentazione (rimosse per farne calce) a cui viene sovrapposto un semplice battuto che tra la fine del V e gli inizi del VI secolo fu sostituito da un selciato formato da basoli di riutilizzo; salendo troviamo uno strato di riempimento del IX–X secolo, con il piano stradale in acciottolato. La quota rimane praticamente invariata per tutto l’altomedioevo e inizia a crescere lentamente solo a partire dai secoli centrali del medioevo sino a raggiungere il livello rinascimentale quando le vie vengono almeno in parte rivestite con basoli antichi di medie e piccole dimensioni preludendo quasi al moderno rivestimento a ‘sampietrini’
della Roma moderna”. (Meneghini)
Un secolo prima della progettazione del Tridente “la zona a Nord di san Silvestro in Capite, fra il tevere e le pendici del Pincio, e fra Piazza Colonna e Porta del Popolo, rimase destinata a usi agricoli fino agli inizi del Cinquecento. I monumenti del Campo Marzio settentrionale – il Mausoleo di Augusto, il suo colossale obelisco solare, la colonna di Marco Aurelio e la basilica di san Lorenzo in Lucina, eretta nel V Secolo – s'innalzavano tra i campi coltivati. Tutte queste terre, fino al ponte Milvio a Nord, e fino a Porta Pinciana e alle pendici del Quirinale a Est, erano di proprietà del monastero di san Silvestro. Aree prevalentemente rurali, disseminate di orti e poderi, piccole case, baracche e capanne di paglia, chiesette e antiche rovine, come quelle delle terme di Costantino e del tempio di Serapide, alle pendici del Quirinale.” (Krautheimer)
Esiste un dipinto che raffigura il panorama di Roma nel XV Secolo, l'unico che conosciamo così grande e dettagliato da consentirci di avere un'idea visiva piuttosto nitida di come apparisse la città
in quegli anni; eseguito da un anonimo, oggi è custodito al Palazzo Ducale di Mantova.
N Parco degli Acquedotti, Castel Sant'Angelo.
XVI Sec. Diffusione del Barocco romano
Sventramenti e distruzioni in varie zone, soprattutto nel Foro.
1514 Inondazione del Tevere
1527-28 Sacco dei Lanzichenecchi ed epidemia
1530 Inondazione del Tevere
1557 Inondazione del Tevere
1590 Carestia
1589 e 1598 Inondazioni del Tevere, crolla il Ponte S. Maria, oggi Ponte Rotto
La città, che nel XV Secolo aveva dato segni di rinascita, dovette poi pagare un enorme tributo alle guerre d'Italia di inizio XVI Secolo. Il sacco dei Lanzichenecchi del 1527-28, il più pesante sofferto dalla città, ed il contemporaneo scoppio della peste portarono alla morte di parecchie migliaia di persone fra soldati imperiali e popolazione. Rispetto ai sacchi barbarici di mille anni prima, limitati principalmente al saccheggio ed a qualche incendio, l'invasione dei Lanzichenecchi, carichi di odio per il papa corrotto e le usanze dissolute della Chiesa romana, portò ad una distruzione sistematica di gran parte della città. “Col sacco del 1527 la peste torna a Roma portata forse dagli spagnoli al seguito del Borbone. In circa due anni, tra le stragi dei lanzichenecchi e la peste, la popolazione di Roma passò da 55.000 a 30.000 abitanti. Forse però, in quegli anni ne ammazzò più la sifilide che la peste. In tutta Europa la sifilide fa strage: è tanta la repulsione per questo morbo, che ogni nazione ne attribuisce la causa alle nazioni nemiche. In Italia si chiama “mal francese”; in Francia “male italiano”; in Spagna “male tedesco”; in Turchia “male cristiano”; in Russia “mal dei polacchi”; nelle Fiandre “male spagnolo” e così via.” (Marcelli)
Durante l'inverno, per scaldarsi, fu bruciato tutto il legno esistente a Roma: porte, finestre, mobili, pavimenti. Assieme bruciarono carte, documenti, archivi e biblioteche. E' anche per questo motivo che le notizie di cui gli storici possono avvalersi per la conoscenza della città in epoca medievale sono scarne, se non del tutto assenti.
Le migliorie urbanistiche sotto papa Sisto IV Della Rovere videro la costruzione di nuove arterie
quali ponte Sisto, cui diede il nome, via dei Banchi e via dei Coronari e la ricostruzione di san
Vitale. Particolarmente grave l'opera di distruzione perpetrata tra il 1586 e il 1589 da papa Sisto V Peretti che, per la costruzione della sua villa sull'Esquilino, demolì, anche con l'ausilio di esplosivi,
i resti del calidarium nelle terme di Diocleziano, rapportabili a circa 100.000 m³ di materiale.
A partire dalla metà del XVI Secolo, terminate la guerra e l'epidemia, i vari pontefici furono capaci di trasformare Roma in una città modello di arte e architettura: nasce il Barocco. Ma a quale prezzo.
“Lo scempio più emblematico si ebbe nel Foro: papa Giulio II Della Rovere (1503-1513) decise di sfruttare tutta la zona come cava di materiali da riutilizzare, molto spesso dopo averli trasformati in calce, nel progetto di rinnovamento edilizio e artistico della città da lui stesso avviato. Secondo i racconti di testimoni oculari come Pirro Ligorio, la distruzione dei monumenti fu rapidissima: a volte bastava un solo mese per demolire edifici quasi integri e a nulla valsero le proteste di Raffaello o le riserve espresse da Michelangelo. Nel tempio di Antonino e Faustina che rischiò come tutto il resto di essere completamente smantellato furono asportate le lastre marmoree che lo rivestivano; nella parte alta delle colonne, sono ancora oggi visibili i segni lasciati dalle corde nel tentativo di farle crollare.” (Wiki)
Nel Seicento, sotto i pontificati di Urbano VIII Barberini, di Innocenzo X Pamphili e Alessandro VII Chigi, il Barocco divenne uno stile di fama internazionale che la città dei papi diffuse in tutto il mondo. Nasce con loro la Roma moderna, come ancora oggi ci appare entro le mura. Questo segnò però la fine per ciò che riguarda l'aspetto medievale delle basiliche e della città in generale.
“I materiali si ricercavano, gli edifici si demolivano, i marmi si calcinavano alla piena luce del sole, sotto l' occhio indifferente delle autorità, anzi col consenso di questa e con partecipazione degli utili.” (Lanciani)
Come ancora oggi possiamo constatare non c'è chiesa a Roma che non abbia colonne o marmi sottratti agli edifici antichi. Con la prolungata assenza di epidemie la popolazione crebbe considerevolmente, ma tutti gli abitanti di Roma ancora non sarebbero riusciti a riempire per metà gli spalti del Circo Massimo.
N Chiesa del Gesù, Chiesa di Santa Susanna, San Girolamo dei Croati, Palazzo Braschi.
XVII-XVIII Secolo, Pop. ≃ 100.000 – Italia ≃ 15.000.000 – Europa ≃ 78.000.000
1606 Inondazione del Tevere
1637 Inondazione del Tevere
1643 Costruzione delle mura Gianicolensi
1647 Inondazione del Tevere
1656 Epidemia di peste (14.000 morti)
1660 Inondazione del Tevere
1703 Terremoto molto forte
“Altro periodo drammatico per Roma fu il 1656. Tornò la peste!
Arrivò con un marinaio napoletano che prese alloggio in una locanda di via di Montefiore, a Trastevere; si era ammalato e fu trasportato all'ospedale di San Giovanni, dove morì dopo pochi giorni. Il medico della Congregazione della Sanità escluse che si trattasse di peste, nonostante gli assistenti dell'ospedale avessero fatto presente che “era morto con segnali” di peste. E fu un errore fatale, perché non vennero messe in atto, per evitare il contagio, quelle accortezze necessarie in certi casi, come isolare la locanda dove il marinaio aveva alloggiato. Accadde però che l'ostessa e i suoi
figli morirono una decina di giorni dopo, e ci si convinse che era peste; ma ormai l'epidemia era chiaramente in atto e andava localizzata in tutto Trastevere. In una notte venne isolato il rione con rastelli, cioè con lunghe cancellate di legno custodite da guardie armate, che avevano l'ordine di sparare a vista a chi tentasse di entrare o uscire. Malgrado i cancelli e la mira precisa delle guardie, il morbo attraversò il Tevere.
Fu poi allestito un lazzaretto all'Isola Tiberina, sbarrando gli accessi dei due ponti, perché all'isola si doveva arrivare solo con barche, che venivano poi utilizzate anche per il trasporto dei cadaveri alla spiaggia presso la basilica di San Paolo per seppellirli in fosse comuni.
Vennero istituiti altri quattro lazzaretti; due a San Pancrazio e a Casal Pio V per la convalescenza dopo una prima giacenza all'Isola; un terzo in via Giulia per la corroborazione della salute dopo la convalescenza; un quarto al convento di Sant'Eusebio, dove “erano collocati que' poveri, i quali ammalando nelle case sospette per esserne usciti infermi di peste”, e, non avendo i sintomi propri, erano considerati "sospetti" e quindi appestati.
"Brutto" e "sporco" era definito tutto ciò che veniva chiaramente a contatto con gli appestati, come medici, confessori, guardie, barche, carrette; furono peraltro vietati cortei, processioni e pubbliche funzioni e fu proibito il suono delle campane, per evitare che i fedeli, a quel richiamo, si riunissero nelle chiese. Fu inoltre prescritto a medici, chirurghi e cerusici di non partire da Roma, pena la vita e la confisca dei beni. La peste terminò nell'agosto 1657. Su una cittadinanza di 100.000 persone, i morti furono esattamente 14.473, di cui 11.373 nella città sulla sinistra del Tevere, 1600 nel Ghetto e 1500 a Trastevere.” (Marcelli)
“L'Accademia dell'Arcadia rappresenta, oltre ad un circolo letterario, un vero e proprio movimento culturale, fondato a Roma il 5 ottobre 1690. I suoi fondatori sono 14 letterati e intellettuali, tutti appartenenti al circolo della regina Cristina di Svezia, che risiedette nello Stato Pontificio dopo aver abdicato al trono. La poetica degli arcadici reagiva al “cattivo gusto”, alle opulenze ed alle luci cupe del Barocco con un ideale classico e pastorale ispirato dal mondo idilliaco dell'antica regione Greca. Oltre al nome dell'Accademia, emblematico da questo punto di vista, fu scelto seguendo questa tendenza anche il nome della sede, una villa sulla salita di via Garibaldi sulle pendici del Gianicolo: il Bosco Parrasio. I suoi membri furono detti Pastori, Gesù bambino (adorato per primo dai pastori) fu scelto come protettore; come insegna, venne scelta la siringa del dio Pan, cinta di rami di alloro e di pino e ogni partecipante doveva assumere, come pseudonimo, un nome di ispirazione greca.” (Wiki)
Clemente XI fece ricostruire il Porto di Ripetta in forme monumentali con materiali di spoglio provenienti dal Colosseo (verrà però distrutto nella seconda metà dell'800 per la costruzione dei Muraglioni). La costruzione della scalinata di Trinità dei Monti, ad opera di Francesco De Sanctis fu la conclusione ideale del progetto del Tridente, insieme ai lavori del porto, con la sensibilità barocca dei "giardini urbani" (1723-26). Un'altra opera imponente, che si innestava su un acquedotto romano, è la Fontana di Trevi, conclusa a metà del Settecento. Sotto Benedetto XIV il
progetto barocco si poté dire completato.
In questi anni (1748) il cartografo Nolli documentò minuziosamente il tessuto urbano. Clemente XI rinnovò inoltre anche l'altro porto, quello di Ripa Grande, che venne da lui dotato dell'Arsenale.
“I Secoli dal XVII al XIX rappresentarono l'epoca d'oro del Grand Tour, periodo interrotto solo dall'occupazione napoleonica. Il termine chiarisce come la moda di questo Tour riguardasse un viaggio particolarmente lungo, che poteva attraversare i paesi continentali e raggiungere perfino mete più esotiche come l’Egitto, ma che aveva come traguardo prediletto e irrinunciabile l'Italia e soprattutto Roma.
I viaggiatori (principalmente ricchi nordeuropei) si muovevano per visitare gli importanti siti archeologici delle civiltà classiche, ma molta attenzione era rivolta anche al contemporaneo, alle opere arcadiche e allo studio della natura, il tutto per perfezionare la propria educazione e conoscenza del mondo. Durante le soste, da buoni turisti, spesso si ritrovarono ad
acquistare opere d’arte e d’antiquariato, cimeli e ricordi di vario genere del viaggio. Fondamentale diventò farsi ritrarre dai pittori più in vista del momento o acquistare vedute del paesaggio italiano: tra i pittori più in voga all’epoca vi erano Pompeo Batoni, Vanvitelli ed il Piranesi. Quest'ultimo esaltò il Rovinismo, cioè il gusto per la drammaticità dei grandiosi ruderi ed il fascino pittoresco e commovente degli ambienti in abbandono e sopraffatti
dalla natura.” (Asinodoro)
“Roma era tappa imprescindibile e l’arrivo di questi visitatori stranieri, fra cui artisti ed intellettuali, plasmò la città, soprattutto nella zona considerata allora “nuova”, tra Piazza del Popolo e Piazza di Spagna. Per molti, come Goethe e lo stesso Gregorovius, arrivare nella città eterna costituiva il raggiungimento di un sogno e talvolta ci si innamorava a tal punto di Roma da non lasciarla più.
I colori di Via del Corso, i cocchi che la domenica specialmente animavano la città, suscitavano in Goethe un senso di vitalità non comune. In genere le sue mete preferite erano i Giardini farnesiani sul Colle Palatino e il Campidoglio. Lo troviamo al Caffè Greco, allora chiamato Caffè dei Tedeschi, un rifugio, un punto di riferimento per artisti e letterati che amavano la calda intimità di quel Caffè, per scambiarsi le loro impressioni e le loro emozioni”. (L. Stanziani)
Il Neoclassicismo e l'ideale.
“Nell’affresco Il Parnaso, all’interno della Galleria nobile di Villa Albani, Anton Mengs trascrive pittoricamente i principi fondamentali dello stile Neoclassico teorizzati da Johann Joachim Winckelmann, col quale il pittore boemo era intellettualmente in sintonia e in stretto rapporto di amicizia. Il primo evidente elemento stilistico presente nell’opera consiste nell’ordine dispositivo dei personaggi, messi intorno alla figura centrale di Apollo, dio della musica e personificazione stessa della poesia, che ne scandisce un calcolato equilibrio compositivo, con cinque personaggi sistemati alla sua destra e cinque collocati alla sua sinistra, tutti sospesi in pose composte e caratterizzanti, cui si aggiunge una sobria e naturale gestualità. Ma l’idea dominante che permea il dipinto è quella della ricerca di una nuova bellezza e della dichiarazione dell’assunto estetico più caro all’autore: l’ideale. «Con l’ideale» egli annotava, «intendo ciò che si vede soltanto con l’immaginazione, e non con gli occhi; così un ideale in pittura si fonda sulla selezione delle cose più belle della natura, purificate da ogni imperfezione», quasi parafrasando l’idea di bello enunciata a chiare lettere da Raffaello: «Il pittore ha l’obbligo di fare le cose non come natura le fa, ma come ella le dovrebbe fare.» Il soggetto dell’affresco, difatti, è anche una sorta di omaggio al Parnaso dell’Urbinate nella Stanza della Segnatura. Il Parnaso di Mengs anticipa e annuncia il neoclassicismo, ne è in un certo modo il manifesto, sebbene non esprima completamente la visione neoclassica che è, oltre che estetica, anche etica. Visione che è compiutamente concretizzata nel Giuramento degli Orazi, primo e autentico quadro totalmente neoclassico.” (Fragnoli)
“A Roma, dopo la straordinaria stagione barocca e tardobarocca che produsse i suoi frutti fino ai primi decenni del Settecento, la corrente del Neoclassicismo giunse con Giovanni Battista Visconti, Commissario dei Musei e Soprintendente alle Antichità, succeduto a Winckelmann dopo il 1768. Visconti promosse una serie di significative trasformazioni presso i Musei Vaticani, che ebbe inizio con l'alterazione del cortile ottagonale da parte di Alessandro Dori, poi sostituito da Michelangelo Simonetti. Dopo il 1775, sotto il pontificato di papa Pio VI, i lavori ripresero con maggior vigore.
Su progetto dello stesso Simonetti e Pietro Camporese furono aggiunte imponenti sale museali, come quella delle Muse, la sala a croce greca e la scalinata d'accesso. Tra il 1817 e il 1822, Raffaele Stern realizzò il cosiddetto Braccio Nuovo. Nel loro insieme, questi ambienti costituiscono una sequenza di spazi diversi, tutti caratterizzati da un'insolita correttezza archeologica. Giuseppe
Valadier fu impegnato nei restauri del Colosseo, dell'Arco di Tito, del Pantheon, di Ponte Milvio, dedicandosi inoltre ai progetti di Villa Torlonia, del Caffè del Pincio, della facciata di San Rocco e della sistemazione di piazza del Popolo, quest'ultima considerata un capolavoro del Neoclassicismo italiano sotto il profilo urbanistico.” (Wiki)
N Mura Gianicolensi, Piazza di Spagna, passeggiata del Pincio, Teatro di Marcello.
XIX Sec. Pop. >200.000
1805 Inondazione del Tevere
1806 Terremoto sui Colli Albani
1809-1814 Occupazione francese
1846 Inondazione del Tevere
1862 Sventramenti per la stazione di Termini e piazza dei Cinquecento
1870 Roma capitale del Regno d'Italia
Inondazione del Tevere pop. >245.000
1873 Sventramenti per Muraglioni sul Tevere
1881 inizio urbanizzazione fuori le Mura
1883 Sventramenti – Corso Vittorio, Giardini Pinciani e Laterano
1885 Sventramenti per Vittoriano e in Campidoglio
“Al momento della presa di Roma (20 settembre 1870), lo Stato sabaudo si trovò a dover trasformare la capitale di uno Stato teocratico assolutista, la cui economia locale era basata sulla rendita fondiaria e sul paternalismo assistenziale, nella capitale di un moderno Stato liberale. La stratificazione sociale ed economica della città al momento dell'Unità d'Italia si può così sintetizzare: al vertice le alte gerarchie clericali, con funzioni di governo e proprietarie - attraverso ordini, chiese e monasteri - di vastissime proprietà fondiarie all'interno delle Mura e lungo tutta la campagna romana, e la nobiltà, detentrice del resto della proprietà fondiaria e delle sue rendite. Entrambe le tipologie proprietarie avevano un dominante carattere latifondista.
Alla base c'era un popolo complessivamente misero, ma saldamente vigilato in nome della fede e, in cambio, sufficientemente assistito nei propri bisogni materiali. In mezzo stavano il clero e i ceti produttivi, che consistevano nell'insieme di alte cariche burocratiche (strettamente dipendenti dalle gerarchie ecclesiastiche), rappresentanti delle professioni eredi delle medioevali arti liberali, e nei cosiddetti mercanti di campagna.
Questi ultimi costituivano il cosiddetto generone, ovvero un ceto di grandi affittuari dei latifondi (che a loro volta subappaltavano), garante fin dal XVI secolo della liquidità delle classi dominanti e della tutela degli approvvigionamenti alimentari cittadina. Esso era quello che più si avvicinava per condizioni materiali alla borghesia europea: questo rivaleggiava con la nobiltà se non in stile certo in lusso, ma - trattandosi di intermediari ed organizzatori, piuttosto che di produttori, di ricchezza - era completamente subordinato, sul piano del potere politico e culturale, alle classi egemoni. Dal punto di vista della struttura economica, Roma era, come nei secoli precedenti, soprattutto un centro di consumo e di servizi che non di produzione: quasi completamente priva di industrie, produceva invece localmente artigianato di lusso e quel che oggi chiameremmo servizi.” (Wiki)
“L'Urbe restò ‹medioevale› per 850 anni: quando i bersaglieri entrarono a Porta Pia, trovarono
una città cresciuta di appena 120 mila abitanti in otto secoli”. (ACRG)
Poi, negli anni seguenti, i vari piani regolatori mirarono all'urbanizzazione sistematica extra mura,
dando il via alle più grosse speculazioni edilizie della storia moderna.
“Come un segno del destino, il 28 dicembre 1870, poco più di due mesi dopo la breccia di Porta Pia, Roma subì una grande inondazione da 17,22 metri, la maggiore dal 1637. Secondo alcuni studiosi, se nel frattempo il bacino del Tevere non fosse stato ridotto in favore di quello dell'Arno, la piena del 1870 avrebbe superato in intensità addirittura quella del 1598. L'impressione fu grande e di nuovo si pose mano a progetti di opere di difesa di Roma dalle piene.” (Wiki)
La situazione si sbloccò per impulso di Giuseppe Garibaldi, che nel 1875 spinse il Parlamento a dichiarare l'urgenza dell'opera e simultaneamente presentò un progetto di deviazione del Tevere e dell'Aniene, che avrebbero dovuto aggirare Roma da est su un tracciato più o meno simile a quello dell'attuale cintura ferroviaria. “Garibaldi, che era stato eletto deputato, si presentò a palazzo
Montecitorio in camicia rossa e poncho, tanto che a fatica lo fecero entrare.” (Barbero)
Al momento di approvare la legge di finanziamento dell'opera, prevalse però il progetto di Raffaele Canevari di arginare il Tevere con gli alti muraglioni di travertino come li vediamo ai giorni nostri.
Dopo l'Unità iniziò un'edificazione massiva dentro e fuori le Mura, la costruzione di larghe arterie
stradali, del Vittoriano e delle infrastrutture ferroviarie. Ciò portò al letterale smantellamento di interi isolati della vecchia città.
N Muraglioni, Museo Napoleonico, Museo Praz.
XX Sec. 1900 Pop. >500.000 – Italia 35.000.000 – Europa 450.000.000
1932 Sventramenti per Via dei Fori Imperiali
1934 Sventramenti per via del Mare e via della Conciliazione
1938 Sventramenti all' Augusteo. Pop. >1.000.000
1943 Bombardamenti a San Lorenzo, Appio e Tuscolano
1944 Bombardamenti su Magliana e Quadraro
1955 Inaugurazione della Metropolitana. pop. <1.650.000
XXI Sec, pop. >2.650.000 – Italia 60.000.000 – Europa 750.000.000
“Gli sventramenti provocarono da una parte la perdita secca e senza contropartita di valori storici, architettonici e ambientali insostituibili e, dall’altra, la deportazione degli abitanti in periferia, in borgate costruite in tutta fretta con i materiali più scadenti, dove la gente, strappata alle sue abitudini e alle sue attività, venne condannata a vivere in condizioni igieniche peggiori di quelle dei vecchi e pur degradati quartieri che venivano distrutti.
Quanto al traffico, i nuovi stradoni con i grossi palazzi costruiti al posto del vecchio tessuto edilizio, ebbero come conseguenza non già il suo alleggerimento, ma il suo ovvio aggravamento e congestione in tutto il centro, man mano che aumentavano le auto, fino alla paralisi attuale. Va da sé che la vera ragione degli sventramenti fu la speculazione edilizia: gli stessi miseri insediamenti costruiti per gli sfrattati dal centro servirono in seguito egregiamente per far salire i prezzi dei terreni circostanti e intermedi, quindi per l’indiscriminata e soffocante espansione a macchia d’olio delle città, a vantaggio dei proprietari terrieri.
Non bisogna naturalmente, in tutto questo, esagerare l’importanza di Mussolini. Egli ebbe solo la forza e l’autorità di realizzare quanto da decenni era previsto dai piani regolatori di età umbertina e successivi, e quanto era proposto dalla cultura ufficiale dell’epoca. Si trattava di una cultura retorica e accademica, che pretendeva di adeguare la città esistente alle esigenze dei tempi nuovi, senza capire che l’operazione da fare era quella inversa, ossia creare la città nuova non sopra ma accanto all’antica, subordinando la soluzione dei problemi moderni (traffico, industrializzazione, urbanesimo) alla salvaguardia della città che ci era stata tramandata nei secoli.” (Associazione Culturale Rome Guides)
Fino a metà '800 Roma aveva mantenuto le dimensioni di una città di grandezza media, ma da quando è divenuta Capitale d'Italia le cose sono cambiate e la tranquilla e grandiosa quinta di tutti i più grandi artisti si è trasformata in una disordinata metropoli. A causa degli sventramenti operati da quel periodo fino alla prima metà del XX Secolo, conseguenza di discutibili piani urbanistici, interi isolati cinque-seicenteschi hanno lasciato il posto a piazze e a larghi boulevard (Corso Vittorio Emanuele, Piazza Venezia, Altare della Patria, via dei Fori Imperiali, via Petroselli ex via del Mare, stazione Termini, ecc.). Nei secoli sono scomparsi, oltre ai maestosi edifici e alle statue dell'antichità, almeno 150 chiese e monasteri medioevali, alcuni tratti delle mura aureliane e deliziosi angoli del centro storico come via Tor de' Specchi, Piazza Montanara, Macel de' Corvi. Per non parlare di ville e giardini, l'autentico tesoro della città eterna:
“Le piante storiche di Roma, dal Cinquecento e fino al 1870 (G.A. Dosio, 1561, G.B. Falda, 1676, G.B. Nolli, 1748, G. Vasi, 1781 e A. Moschetti, 1839, solo per citare le più celebri), svelano un’immagine della città racchiusa dalle Mura Aureliane in cui l’elemento non urbanizzato prevale sul costruito. Ville e giardini romani prospereranno, dunque, tra il XV e il XVIII secolo, spesso
trasformati a causa dei cambiamenti di proprietà e di gusto, mantenendo, però, intatta la loro vocazione originaria.
Tra Sette e Ottocento tuttavia, con il declino economico dello Stato Pontificio, alcuni di questi complessi cadranno in abbandono e verranno demoliti o perderanno quasi del tutto le caratteristiche che li avevano resi celebri. Spariranno antiche residenze come il quattrocentesco “casino” dei Colonna al Quirinale, presso il Tempio di Serapide, allora identificato come “Tempio del Sole”, ancora attestato nella prima metà del Seicento, o il giardino dei Soderini, mirabilmente impiantato nel Cinquecento all’interno del Mausoleo di Augusto, caduto in rovina alla metà del Settecento e poi soppiantato da un’arena detta “Anfiteatro Corea” per i combattimenti con i tori, del quale, negli anni Trenta del Novecento, Antonio Muñoz ipotizzò una riproposizione.
Importanti ville cinque-seicentesche scompaiono, invece, a causa dello stato di abbandono in cui versano, come la Villa Giustiniani fuori Porta del Popolo, acquistata nel 1820, oramai in declino, da Camillo Borghese per l’ampliamento della villa pinciana e della quale sopravvive soltanto una dépendance, la cosiddetta “Casina Giustiniani” o la Villa Sacchetti al “Pineto” con le sue pregevoli sistemazioni, il cui elegante edificio, progettato da Pietro da Cortona nel terzo decennio del Seicento appariva già fatiscente alla fine del secolo. Un’altra causa di distruzione o trasformazione di molte ville romane furono i combattimenti scatenatisi per la difesa della Repubblica Romana durante l’assedio posto dall’esercito francese alla città nel 1849.
Molte aree al di fuori delle mura vennero colpite dai bombardamenti o dalle distruzioni programmate per eliminare eventuali caposaldi a favore degli assedianti, dai Prati di Castello alla zona compresa tra Porta Pia e Porta Flaminia: in quest’ultima fu minata e fatta esplodere la settecentesca Villa Patrizi, poi ricostruita dalla famiglia nelle medesime forme e infine distrutta definitivamente nel 1909 per la costruzione della sede del Ministero dei Trasporti.
Furono gravemente danneggiati alcuni edifici di Villa Borghese, come il “Casino dei Giuochi d’acqua” e l’attuale “Aranciera” sede del Museo Bilotti, e fu distrutta la pittoresca “Casina di Raffaello” sita nell’adiacente “Villetta” di Giuseppe Doria, presso l’attuale Galoppatoio, soggetto di numerose raffigurazioni paesaggistico/evocative. Ma il settore più pesantemente colpito dai cannoneggiamenti fu quello Gianicolense, teatro dell’assedio vero e proprio.
Qui furono disastrati tutti gli orti, i giardini e le residenze di delizia che si affollavano fuori e dentro le mura, tra cui il Casino Corsini ai Quattro Venti, poi incluso nella adiacente Villa Pamphilj e soppiantato dal celebrativo “Arco dei Quattro Venti”, e l’originale “Vascello”, dimora progettata nel 1663 da Plautilla Bricci per l’abate Elpidio Benedetti, poi passata in proprietà al conte Giraud, che ospiterà l’avamposto degli eroici difensori della Repubblica soffrendo così la completa distruzione.
Ma sarà la destinazione di Roma a Capitale d’Italia, e la conseguente necessità di ammodernamento e ampliamento della città, a comportare, negli anni successivi al 1870, una decisa inversione del rapporto tra non-abitato e costruito, sacrificando in gran parte ville e giardini, pur celeberrimi, per far spazio a nuovi quartieri, strade, servizi e centri amministrativi, sia dentro che fuori le Mura.
Le attuali ville storiche, originariamente private, sono sopravvissute in gran parte grazie a politiche di acquisizione pubblica, dettate più da ragioni urbanistiche, come la dotazione di spazi verdi a fronte di un’urbanizzazione intensiva, che di salvaguardia tout-court.
La quantità di complessi e giardini scomparsi a causa dello sviluppo urbano è impressionante, ma, fortunatamente, un cospicuo numero di documenti scritti e visivi, molti dei quali conservati nelle collezioni dei Musei di Roma Capitale, testimonia le loro bellezze e peculiarità.
Seguendo la cartografia esplicativa dei vari Piani Regolatori è possibile ricostruire la storia delle distruzioni o radicali trasformazioni delle ville romane.
Tra Quirinale e Viminale, sotto la spinta dei progetti di edificazione di monsignor Xavier de Mérode
per l’apertura di via Nazionale, vengono meno gli “horti” una volta di proprietà del cardinale du Bellay e viene tagliata via una parte del giardino di Villa Aldobrandini. Nelle successive lottizzazioni è inoltre distrutta la Villa Strozzi, già Frangipane, con le sue notevoli collezioni d’antichità e la memoria della residenza romana di Vittorio Alfieri, frantumata prima dal passaggio delle nuove vie Napoli, Firenze e Torino e poi definitivamente annientata con la costruzione del Teatro Costanzi. Stessa sorte tocca al seicentesco giardino Chigi in via Quattro Fontane, un interessante esempio di “villetta” urbana che ospitava un singolare museo di “curiosità”, la cui scenografica sistemazione ci è trasmessa dall’incisione di Teresa Del Po che raffigura l’apparato architettato da Carlo Fontana per il banchetto offerto dal cardinale Flavio Chigi a Caterina Rospigliosi il 15 agosto 1668 e da un dipinto del 1850 di Giuseppe Roesler Franz che mostra una voliera a forma di tempietto ormai in abbandono. Ancor più dolorosa è la devastazione delle ville nell’area esquilina, tra le quali spiccano le aristocratiche Villa Caserta (Caetani), posta tra via dello Statuto e via Merulana, e Villa Palombara, poi Massimo, nel luogo dell’attuale piazza Vittorio, della quale sopravvive soltanto la celebre “porta magica”. Ma la perdita più rilevante fu la dimora della villa della famiglia di Sisto V, la Villa Montalto-Peretti, poi passata ai Negroni e in ultimo ai Massimo, sacrificata per la costruzione del nuovo quartiere Esquilino e della limitrofa Stazione Termini. Possiamo quindi valutare le fattezze degli edifici principali, il “Palazzo di Termini”, soppiantato dall’attuale Palazzo Massimo alle Terme (1888), una delle sedi del Museo Nazionale Romano, e il “Palazzetto Felice”, l’edificio amato da Sisto V per la piacevolezza dei suoi ornamenti, in un primo momento sopravvissuto alla prima urbanizzazione dell’area ma successivamente (1888) anch’esso demolito. Altra perdita considerevole è quella del seicentesco giardino Giustiniani, che si distendeva tra la via Sistina (Merulana) e la piazza di San Giovanni in Laterano, della quale resta, con accesso in via Matteo Boiardo, se pur rimaneggiato, il casino decorato internamente nel 1803 dai pittori nazareni su commissione del principe Carlo Massimo, divenutone proprietario l’anno precedente.
Nel 1848 la villa passò ai Lancellotti che, nel 1871, vendettero il giardino come area edificabile; nel 1885 ne fu avviata la distruzione. Il portale monumentale sulla via Merulana attribuito a Carlo Lambardi fu smontato, ceduto allo Stato nel 1929 e ricostruito a Villa Celimontana nel 1931 portale villa Celimontana], in sostituzione di un mediocre ingresso dei primi dell’Ottocento demolito per l’allargamento di via della Navicella. La bellezza del giardino, punteggiato di statue antiche, prospettive architettoniche e scompartito da alte siepi, è mirabilmente documentata da una serie di 7 acquerelli conservati al Museo di Roma. Oltre alle grandi ville, la prima ondata di urbanizzazione travolge anche il tessuto di piccole e pregevoli dimore circondate da giardino che costellavano l’area tra Castro Pretorio e Porta Tiburtina, come p. es. le ville Rondinini, Olgiati, poi del Noviziato dei Gesuiti. Anche la seconda, e ben più consistente, fase di inurbamento, sancita dal Piano Regolatore redatto da Alessandro Viviani nel 1882, cancellerà dalla mappa di Roma ville antiche e famose. È il caso della Villa Altoviti affacciata su Tevere ai Prati di Castello, anch’essa soggetto di vedute di paesaggio, la cui loggia nel 1553 era stata affrescata da Giorgio Vasari, incendiata durante i combattimenti del 1849, poi ricostruita e infine demolita per la costruzione del nuovo Palazzo di Giustizia (1889-1910) e del quartiere limitrofo.
Non meno grave è la distruzione del tessuto di ville e giardini che caratterizzava l’area tra Porta Pia e Porta Pinciana per la realizzazione del “Nuovo Quartiere agli Orti Sallustiani”, con la sparizione della Villa Massimo di Rignano e della pittoresca “villetta” Spithover, già Barberini, il cui casino, demolito nel 1906, sormontava i resti delle sostruzioni degli antichi horti.
In quest’area si registra la perdita più significativa, quella della nobile seicentesca villa dei Ludovisi, offerta nel 1886 dall’ultimo proprietario, Rodolfo Boncompagni Ludovisi, in convenzione alla Società Generale Immobiliare per procedere alla lottizzazione di più dell’ottanta per cento della sua superficie totale che darà vita all’attuale “Rione Ludovisi”.
Meta di viaggiatori e studiosi, fu decantata da scrittori e poeti per il pregio della straordinaria collezione di oltre 450 sculture antiche e per la bellezza dei giardini impiantati nell’area degli antichi horti di Sallustio (dei quali si conservava, giacente in terra, un obelisco anticamente lì innalzato) da dove si godeva un fenomenale colpo d’occhio sulla città.
Il rincrescimento, energicamente espresso da Gabriele D’Annunzio, Rodolfo Lanciani e Theodor Mommsen, per il sacrificio del complesso, dal quale fu risparmiato il solo Casino dell’Aurora decorato dalle pitture di Caravaggio e di Guercino, ben risuona in uno scritto dello storico dell’arte Herman Grimm, intitolato La distruzione di Roma (1886), in cui affermava che «profetizzare, che sotto il nuovo governo la villa dovesse andare distrutta … e gli allori, le querce, i pini abbattuti … sarebbe stato allora un’offesa che né anche il più acerbo nemico della nuova Italia avrebbe osato recarle». Oltre la già ricordata Villa Patrizi sulla Nomentana, al Celio sarà sacrificata, per la costruzione dell’Ospedale Militare (1885-91), la Villa Casali col suo pregevole edificio e il giardino, del quale resta solo una fontana a pianta polilobata all’interno del parco del nosocomio, da cui si ammirava la spettacolare vista del Colosseo. Ancora al Celio, all’incrocio tra le vie dei Santi Quattro Coronati e di Santo Stefano Rotondo, verrà distrutta la villa-museo del marchese Giovanni Pietro Campana, famosa nella prima metà dell’Ottocento per le notevoli collezioni di antichità esposte in apposite architetture e nel giardino: alla morte del proprietario (1880) la proprietà fu acquistata dallo scultore inglese Warrington Wood e intorno al 1895 passò all’Ordine dei Cappuccini e al “Collegio Salviati” per essere, infine, abbattuta nel terzo decennio del Novecento per la nuova edificazione del Pontificio Collegio Irlandese (1922-26).
Anche la realizzazione dei nuovi argini di contenimento del Tevere, opera intrapresa a partire dal 1875 e conclusasi nel 1926, comportò la distruzione o la riduzione dei giardini affacciati sul fiume.
Il giardino della “Farnesina” fu di fatto dimezzato e perdette il “caffeàus” fluviale derivato dall’antica loggia del giardino Farnese. Stesso destino subì anche un’altra sistemazione farnesiana, il casino con giardino connesso a Palazzo Farnese detto “della Morte”, al pari del seicentesco “Casino di Donna Olimpia” a Ripa e del giardino Consalvi, poi Marescotti, a Ponte Rotto.
Sulla via Portuense disparve la pregevole Villa Massimo, poi Della Porta Rodiani e Sacripanti, realizzata agli inizi del Seicento; ne resta l’imponente portale del 1629, il cui progetto è attribuito a Girolamo Rainaldi, oggi soffocato dall’edilizia abitativa intensiva sorta tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. A partire dal Dopoguerra il consumo di suolo e di aree verdi di pregio, dovuto all’urbanizzazione e alla speculazione edilizia, tende ad arrestarsi, da un lato per la saturazione delle aree centrali e di quelle suburbane più prossime, dall’altro per una più nitida consapevolezza dell’importanza culturale e civile dei giardini storici che ne ispirerà la difesa e la tutela.” (A. Cremona/Sovrintendenza)
N villa Doria Pamphilj, villa Torlonia, villa Sciarra, via della Pilotta, villa Farnesina.
PROVENIENZE E MODALITÀ
DI SPOGLIAZIONE E DI REIMPIEGO A ROMA
TRA TARDOANTICO E MEDIOEVO
di Patrizio Pensabene
Quando si affronta la problematica del reimpiego, limitarsi al tema delle provenienze delle spoglie è certamente riduttivo se si considera che l’importanza degli elementi antichi riutilizzati è soprattutto nel nuovo significato che essi assumono nei contesti di riutilizzo: stiamo parlando naturalmente degli elementi destinati a essere visti e non di quelli frammentati e “nascosti” nelle murature dove hanno funzione di coementa. È per i primi che la gamma delle interpretazioni, dei significati varia a seconda dei contesti e delle funzioni negli edifici in cui sono mesi in opera, Nel campo degli elementi di elevato, quali basi, capitelli e fusti, si passa da spiegazioni funzionali (“sostenere”) e di arricchimento dell’aspetto decorativo e del prestigio dei nuovi spazi architettonici in cui sono inseriti, tramite appunto l’uso di spoglie provviste di dignitas, di decus, a interpretazione invece cercate prevalentemente sul piano simbolico o addirittura ideologico: nell’edilizia religiosa la vittoria della chiesa sull’impero romano e in quella civile o anche privata il richiamo all’autorità imperiale romana nel segno della continuità quale giustificazione del potere delle nuove classi dirigenti. A meno che, dunque, non si tratti di spoglie particolari, la domanda sulla loro provenienza risulta meno importante rispetto ai significati acquisiti nel nuovo contesto. Tuttavia in una visione complessiva del fenomeno del reimpiego, anche la ricerca dei monumenti da cui provenivano le spoglie può divenire un campo di feconde ricerche storiche, in quanto contribuisce a spiegare i cambiamenti sociali e anche politici che si verificano di volta in volta e ancora ci permette in qualche modo di “misurare” il rapporto con l’antico intrattenuto nei vari periodi. In questa sede tratteremo soprattutto del reimpiego architettonico e rileveremo come, quando il fenomeno è seguito attraverso i secoli, si possano ottenere informazioni importanti per ricostruire le tappe della spoliazione dei monumenti antichi e della trasformazione della città di Roma tra il
tardo antico e il medioevo. Ricostruire dunque la provenienza delle spoglie architettoniche, anche se in realtà è possibile in un numero limitato di casi rispetto alle enorme mole dei materiali reimpiegati, ci consente di risalire alle modalità dell’abbandono degli edifici antichi, ai tempi con cui essi si trasformarono in cave di materiali, e soprattutto ai mutamenti che nel corso dei tempi subisce proprio la richiesta di spoglie e all’atteggiamento nei diversi periodi verso la qualità e la quantità delle spoglie. È di prammatica cominciare con l’arco di Costantino e con la basilica Lateranense perché entrambi, pur nella continuità di un pratica sempre esistita, anche se a Roma si accentua soprattutto dal III sec. d.C. in poi, segnano un cambiamento epocale proprio a riguardo del reimpiego: spoglie e pezzi lavorati ex novo sono assemblati insieme in modo da restituire una forma omogenea, che si riallaccia alle antiche tradizioni architettoniche, pur apportando novità compositive importanti, secondo i dettami della traditio, della inventio e della varietas. Sono questi dettami che ora consentono di mettere sullo stesso piano pezzi di riutilizzo e pezzi nuovi, di lasciare in secondo piano le differenze stilistiche tra le varie componenti, in quanto unifica, anzi prevale su tutto, il messaggio affidato all’architettura dei due monumenti, il primo destinato a celebrare la vitto- ria di Costantino su Massenzio, mettendo in ombra il fatto “scandaloso” che ad essere celebrata è una guerra civile, il secondo a contrapporre alle basiliche tradizionali romane un nuovo tipo di basilica, quella cristiana, dentro la quale si svolgevano funzioni religiose per onorare il dio che aveva permesso la vittoria dell’imperatore sul suo rivale. Abbiamo già discusso in passato sul significato dei due monumenti a tale riguardo, ma in questa sede interessa sottolineare le conseguenze che avrà il fatto che tutte le loro componenti marmoree siano costituite da elementi di reimpiego, in alcuni casi rilavorati, ma nella maggioranza messi in opera con lo stesso aspetto che avevano nel luogo del primo impiego. Innanzitutto ciò implica una disponibilità di spoglie marmoree presumibilmente provenienti da monumenti pubblici, o comunque imperiali, data la loro grandezza e la qualità della loro lavorazione. Se siamo ancora in un periodo in cui la città, nella sua parte monumentale, era certamente quasi tutta in piedi, tuttavia dovevano essersi costituiti magazzini probabilmente statali in cui vi erano radunati i resti di edifici danneggiati per qualche evento naturale (terremoti, incendi) o parti di monumenti rimasti incompiuti per varie cause quale la damnatio memoriae, ripensamenti di costruzioni, adattamenti. In questo senso si è ventilata l’ipotesi che nell’Arco di Costantino alcuni dei marmi architettonici provenissero dagli avanzi della ricostruzione massenziana delle celle e della peristasi del Tempio di Venere a Roma che poco prima erano state danneggiate nell’incendio di Carino e che in occasione della ricostruzione subì la parziale eliminazione del colonnato interno del peristilio: dal tempio sicuramente provengono alcuni elementi architettonici reimpiegati nella Basilica di Massenzio. Non è più cosi certa inoltre la provenienza dal Foro Traiano dei Daci dell’arco, sia perché delle stesse dimensioni non ne sono stati trovati nel foro, sia per aver rinvenuto frammenti di statue semilavorate in pavonazzetto di Daci in depositi marmorari connessi al porto tiberino presso il Campo Marzio. In effetti, la scritta ad arcu(m) incisa sulla base dei Daci dell’Arco di Costantino fa pensare a una loro precedente collocazione in un magazzino, dentro cui sarebbero stati scelti, che non eventualmente sui portici del foro dove avrebbe causato maggiore difficoltà l’incisione di tale destinazione, soprattutto se le statue erano collocate sull’attico. Ricordiamo che anche nell’Arco di Giano è reimpiegato nella pavimentazione un blocco di travertino in cui è inciso ARCI che potrebbe ugualmente rappresentare una sigla di destinazione. Sia l’arco di Costantino, sia l’arco “di Giano” (da identificare probabilmente con l’Arco del divus Costantinus) già pongono, dunque, il problema dell’esistenza di un grande edificio pubblico di cui parte della trabeazione doveva essere caduta in disuso, perché in entrambi gli archi sono reimpiegati frammenti di fregio-architrave e altre parti di trabeazione che presuppongono l’origine da importanti monumenti, come poteva essere appunto l’arco dedicato a Marco Aurelio, da cui proverrebbero i rilievi dell’attico dell’Arco di Costantino. Ancora, parti reimpiegate di architravi, di basamenti e di rocchi di colonne di dimensioni notevoli hanno fatto pensare ad una provenienza di alcune delle loro spoglie, oltre che dal Tempio di Venere e Roma, anche da un qualche complesso templare del Campo Marzio; ci si riferisce in particolare alla soglia sul lato sud del fornice centrale costituita a un enorme blocco in proconnesio di architrave (lungo
m. 5, largo m.1,40) e da quello vicino poco più piccolo, per cui si è ipotizzato una provenienza dal Tempio di Matidia nel Campo Marzio. È noto, inoltre, come già le colonne onorarie superstiti del lato meridionale del Foro Romano, attribuibili in base ai bolli laterizi all’età dioclezianea, o al massimo a cavallo tra questa e il periodo di Massenzio, fossero costituite da enormi fusti di reimpiego (rudentati in pavonazzetto, scanalati in marmo bianco, lisci in granito grigio e rosa di Assuan) che di nuovo presuppongono un’origine da grandi edifici: anche la colonna di Foca, che presentava la sua fase principale di epoca dioclezianea o di IV secolo (nella fase della sua ridedicazione del 608, furono aggiunte solo le scalinate sui quattro lati), era composta da un grande capitello corinzio, di età traianea, e da un fusto scanalato in marmo proconnesio, alto m.13,60, diviso in rocchi e risalente ugualmente alla piena età imperiale. Non meraviglia quindi che già nei primi decenni del IV sec. d.C. fossero a disposizione per reimpieghi grandi rocchi di colonne scanalate in proconnesio, quali testimoniate appunto dalla colonna di Foca e da un rocchio dal diametro di m. 1,85 riusato nella muratura dell’Arco di Giano. Infine è stato ipotizzato che gli stessi fregi traianei possano essere considerati domizianei, anche perché si ritiene quasi impossibile che il Foro Traiano possa essere stato impoverito per l’arco di Costantino, mentre si ritiene che la damnatio memoriae di Domiziano possa aver lasciato monumenti incompiuti a lui dedicati, i cui marmi sarebbero stati conservati in magazzini. Sono comunque possibili altre ipotesi perché si è già rilevato che uno dei capitelli compositi del portico in summa cavea del Colosseo, ricostruito sotto Alessandro Severo, è scolpito in un blocco marmoreo di reimpiego con parte di una grande iscrizione in cui si è riconosciuta una dedica a Traiano, suggerendo quindi l’esistenza di un monumento traianeo già demolito o non compiuto i cui elementi architettonici potevano essere reimpiegati già dalla fine del periodo severiano. Quello che è certo è che nel corso del IV secolo, e soprattutto nella prima metà del V secolo, l’atteggiamento statale sulla conservazione degli antichi edifici del centro monumentale di Roma non è uniforme. Se sono molteplici gli interventi di restauro nell’area del Foro Romano, tuttavia si registra un precoce abbandono di alcuni monumentali edifici, come il tempio dei Dioscuri: da una parte sono state addotte cause strutturali che avevano minato la stabilità di questo tempio e di altre strutture, determinandone un precoce abbandono e il conseguente smantellamento di alcune parte marmoree, dall’altra si è messo in evidenza come la costruzione dei rostra Diocletiani possa aver “tagliato” dal foro i templi dei Castori e del Divo Giulio di cui si trascurò o s’interruppe il mantenimento, condannandoli ad un declino, evidente dalla metà del IV secolo, al contrario della Curia e della Basilica Giulia che invece furono ricostruiti dopo l’incendio del 285, del Tempio di Saturno e del Portico degli Dei Consenti ripristinati invece nel terzo trentennio del IV secolo. In effetti non emergerà immediatamente un atteggiamento ostile verso i monumenti pagani di Roma, anche quando si tratta di luoghi di culto antichi: vi è infatti una serie di passi legislativi graduali che divengono più decisi e frequenti nel loro contenuto antipagano solo con la fine del IV secolo, quando vari decreti di Teodosio I (v. in particolare quelli del 391) documentano una nuova fase definibile repressiva verso gli antichi templi, ma dettano anche criteri di conservazione degli antichi edifici. Il periodo teodosiano è anche importante per la progressiva comunanza d’intenti e solidarietà che viene a manifestarsi tra l’autorità statale e quella dei vescovi proprio a riguardo del’edilizia pagana. Dal V secolo in poi, a parte opere di utilità pubblica come gli acquedotti e le terme, o di pubblico divertimento, come gli edifici di spettacolo, che si restauravano, molte delle strutture antiche erano abbandonate, avendo perso la loro funzione originaria: venivano quasi sempre riutilizzate o asportandone singole parti, preferibilmente pezzi lavorati o colonne da reimpiegare in nuovi edifici, oppure riutilizzando l’intero edificio antico a cui veniva attribuita una nuova funzione. Ma è dal VI secolo che si assiste ad una “normale” attività di riutilizzo degli edifici pubblici, e non solo dei templi, e – dopo le guerre gotiche che avevano devastato l’Italia – ad una disponibilità da parte della Chiesa di terre e di denaro maggiori del governo bizantino stesso, che ebbe come conseguenza che la cura e l’amministrazione di molti edifici passarono sotto di essa. Tuttavia va rilevato che la legislazione tardoantica non ha mai previsto il trasferimento sistematico alla chiesa di edifici pubblici, sebbene ciò non escluda che questi possano essere stati oggetto di specifici provvedimenti di donazione: è ormai assodato, comunque, che gli effettivi controlli delle autorità vengono meno con il VI secolo e che la distrazione dei fundi templorum andasse a totale vantaggio delle Sacrae Largitiones fino oltre il 423, come si desume dal codice teodosiano (CTh, XV,1,18; CJ, XI,71,3-4; CTh, XI,28,14). I dati archeologici, di pari passo a quelli legislativi, ci permettono di seguire le trasformazioni in atto, documentandoci i prelievi di spoglie e di conseguenza gli abbandoni parziali o completi di monumenti pubblici che cominciano ad infittirsi a partire dal tardo IV secolo. Un’area della città che appare presto colpita in tal senso è di nuovo il Campo Marzio. Infatti dai propilei del Portico di Ottavia che appartengono al restauro severiano del complesso sono prelevati alcuni capitelli e probabilmente altri marmi riutilizzati a S. Paolo fuori le mura del tardo IV sec. d.C., ma con un importante intervento nel V secolo: infatti tre esemplari corinzi reimpiegati sulle colonne della navata centrale della basilica sono uguali anche nelle misure ai capitelli ancora in situ nella facciata esterna con frontone del propileo, di cui dovevano essere venute meno le colonne della facciata interna. Se però nel corso del IV sec. si è in presenza di smantellamenti solo parziali di edifici antichi, come proverebbe proprio il conservarsi a tutt’oggi della facciata esterna del Portico di Ottavia, è con la prima metà del V sec. d.C., a partire probabilmente degli anni immediatamente successivi al sacco di Roma del 410, che diventano disponibili a Roma interi complessi monumentali, evidentemente danneggiati e non più recuperabili, o comunque non restaurati per mancanza di una volontà politica in questo senso. Si registra cosi l’abbandono della Porticus Liviae sul Colle Oppio che permise nella basilica di S. Pietro in Vincoli la realizzazione di un colonnato dorico uniforme: l’edificio era stato promosso dal papa e da una evergete imperiale Eudocia, e ciò spiega il permesso di demolire e riutilizzare un intero complesso porticato. Ancora, sul colle Aventino avviene la demolizione delle Terme di Sura (pare collocate a nord di S. Prisca) che nuovamente permise nella basilica di S. Sabina l’innalzamento di un uniforme colonnato corinzio di II secolo e di portali con stipiti e architravi ottenuti da spoglie architettoniche sempre dalle terme: la committenza è ora del presbitero Pietro d’Illiria, evidentemente ben connesso alla corte papale e alla prefettura della città per aver ottenuto il permesso di utilizzare un insieme così importante di elementi architettonici marmorei in buone condizioni di conservazione. Ancora, a S. Paolo f.m., nel restauro successivo al 441, furono sostituite dalle 40 colonne delle navate con magnifici fusti in pavonazzetto, di cui, non sappiamo su che base, è affermata la provenienza dal Mausoleo di Adriano da parte di Nicola Nicolai, che costituisce la fonte più importante sullo stato della chiesa prima dell’incendio del 1823 e che descrive nel 1815 le colonne (ventiquattro colonne di marmo “pavonazetto di un sol pezzo scanalate da un terzo in su”), di cui riporta il disegno di due esemplari (alti m 10,19 e 10,45). Nel V sec. inoltre si registra un abbandono a macchie di leopardo dei fori imperiali: alcuni infatti, come il foro Traiano, sono ancora conservati e presumibilmente oggetto di manutenzione, come già dimostra l’ammirazione per esso di Costanzo II che lo visita nel 356 e come prova l’evidenza archeologica di un uso piuttosto avanzato, altri invece abbandonati, come il foro di Cesare da cui furono prelevati numerosi elementi marmorei per il nuovo Battistero Lateranense, costruito fra il 432-440 da Sisto III, tra cui le famose basi d’acanto oggetto di continue riproduzioni grafiche nei secoli successivi ed ancora diversi capitelli corinzi del tipo asiatico che evidentemente dovevano formare parte di un qualche annesso del foro perché, sia nel caso dei capitelli sia nel caso delle basi, sono state trovati frammenti uguali proprio al suo interno. Va ancora osservato che nel IV e V secolo l’ampiezza delle grandi basiliche, costruite nel periodo costantiniano e anche nel tardo IV secolo, come mostra S. Paolo, o ancora nella prima metà del V secolo, come mostra S. Maria Maggiore, richiedeva necessariamente elementi architettonici di spoglio di grandi dimensioni che non potevano che essere cercati nei magazzini dove appunto erano radunati pezzi provenienti da edifici demoliti, o nei grandi depositi marmorari lungo il Tevere, presso la Statio Marmorum ai piedi dell’Aventino, e di Porto, dove, come abbiamo già osservato in altre sedi, vi era una rimanenza piuttosto consistente di blocchi di marmo e fusti non messi in opera, spesso importati anche nei secoli precedenti e rimasti inutilizzati. Si è già osservato come tali magazzini continuino a fornire cantieri ecclesiastici anche nell’avanzato V secolo, come proverebbero molti
dei fusti in granito di S. Stefano Rotondo, che presentano gli scapi non rifiniti e alcuni dei suoi elementi architettonici con sigle da interpretare come nomi abbreviati dei proprietari o gestori dei magazzini. È vero anche che in diversi casi si verifica pure l’importazione di marmi nel corso di IV e V secolo – basti citare il nutrito gruppo di capitelli corinzi ad acanto dentellato di S. Paolo f.l.m., i fusti in marmo tasio di S. Maria Maggiore, dei depositi di Porto e del protiro di SS. Giovanni e Paolo, e come tra l’altro provano negli ultimi due casi le sigle di proprietà relative a importanti personaggi tardo antichi. Infine vi è il tema dei tituli già inseriti in domus o in parti annesse, come impianti termali: nella loro trasformazione architettonica in chiese con navate essi utilizzerebbero le colonne dello stesso edificio in cui erano inserite, come sembra sia il caso di S. Pudenziana che riadopererebbe le colonne e i capitelli a calice delle terme annesse alla domus dei Pudentes. Più complesso è affrontare il reimpiego che nel tardo IV e nella prima metà del V secolo si verifica nei “nuovi” fori ed edifici a scopi civili costruiti o restaurati e ridedicati agli imperatori regnanti ad opera dei prefetti urbani, in quanto in parte utilizzano elementi degli stessi edifici che vengono rifatti, in parte da altri contigui abbandonati o di nuovo prelevati da magazzini. Menzioniamo per la sua singolarità il complesso che occupava l’area sotto parte di S. Maria in Cosmedin, di cui è stata scoperta la platea in blocchi di tufo di m. 21,70 x 31,50, rinvenuta sotto le absidi della chiesa, nella quale si è proposto di riconoscere il basamento dell’Ara Maxima, e i resti di una attigua aula colonnata di cui sono visibili 10 colonne sorreggenti arcate, perché inglobate nei muri ovest (sette fusti) e nord (tre fusti) della chiesa. I fusti, rudentati e di marmo bianco quelli restanti, ma, secondo una descrizione della chiesa del 1715, anche lisci sul fianco est dell’aula non più conservato, sono di altezza leggermente diversa, intorno ai sette metri, e in conseguenza di ciò variano le altezze delle basi e dei piedistalli, più bassi sul lato nord dove le tre colonne sono più alte, permettendo di riconoscere in essi materiale di reimpiego. Questo dato, insieme alle sei arcate in bipedali reimpiegati, alte circa due metri che si conservano sul lato lungo, ha condotto ad una datazione tardo imperiale, epoca a cui corrisponde anche il rialzamento del livello della piazza, portata alla stessa quota della fascia lungo l’argine (già rialzato nel II secolo di m. 1,77), e a cui risale la dedica ivi ritrovata di una statua a Costantino da parte di Creperio Madaliano, prefetto dell’Annona nel 337-341: possiamo così inserire l’intervento nell’area di Ercole tra i restauri di piazze che si verificano tra il IV e la metà del V secolo ad opera dei prefetti della città che spesso ricordano il loro operato come costruzioni di nuovi fori. Per le colonne, dunque di reimpiego, si potrebbe ipotizzare una provenienza dall’area stessa, forse proprio da un portico o propileo (v. l’uso dell’ordine composito che a Roma non è mai impiegato nei templi), che comunque attesterebbe demolizioni e danni negli spazi di culto dedicati a Ercole nel Foro Boario. Che portici e propilei con varie funzioni continuino ad essere eretti nel V secolo lo mostra il portico che chiudere a nord l’area sacra di Largo Argentina e che correva parallelo all’estremità est dell’Hecatonstylum: in esso riteniamo siano state reimpiegate colonne e basi dal complesso del Teatro di Pompeo, i cui annessi, dunque, comincerebbe ad essere smantellato già in questo periodo. La riconquista bizantina anche di Roma non segna grandi opere di restauro nonostante la dichiarazione nella Pragmatica Sanctio di voler provvedere alla manutenzione di edifici pubblici, del foro e dell’alveo del Tevere a Roma e di Porto (consuetudines etiam privilegia Romanae civitatis vel publicarum fabricarum reparationi vel alveo Tiberino vel foro aut portui Romano sive reparationi formarum concessa servari praecipimus, ita videlicet ut ex isdem tantummodo titulis ex quibus delegata fuerunt praestentur), ma queste poche confermerebbero come le testimonianze di tali interventi vadano cercate nelle fonti epigrafiche ed archeologiche. È probabile, ad esempio, che la frase purgato fluminis alveo che compare nelle iscrizioni del ponte Salario sull’Aniene, ricostruito nel 565 da Narsete (furono ricopiate dall’Anonimo di Einsiedeln: CIL,VI,1199a-b; ILS 832; PLRE III Narses 1), faccia riferimento alle disposizioni della Pragmatica Sanctio, ma è importante sottolineare che nelle sponde del ponte furono impiegati plutei (noti dalle incisioni di Seroux d’Agincourt) uguali a quelli d’importazione bizantina e in marmo proconnesio di S. Clemente, a conferma che i grandi personaggi, legati alla corte di Costantinopoli, continuavano a intervenire e anche a poter disporre di marmi d’importazione e non solo di reimpiego. Un’ulteriore annotazione sul fatto che l’iscrizione ora citata è l’ultima ad informare del rinnovamento di un monumento pubblico da parte del potere imperiale a Roma – ex praeposito sacri palatii ac patricius et exarchus Italiae –, la stessa formula impiegata nell’ultima testimonianza di una dedica imperiale, quella posta nel 608 sulla Colonna di Foca nel Foro Romano, questa abbiamo detto già eretta nel IV secolo. Non è precisabile quale possa essere stato a Roma l’eco della grande trasformazione giustinianea di S. Sofia a Costantinopoli, con le sue cupole e i suoi matronei, ma le fonti informano che otto grandi colonne di porfido furono prelevate dal Tempio del Sole e trasportate a Costantinopoli per essere riutilizzate a S. Sofia: il prelievo di queste colonne svolgerà un grosso ruolo nell’atteggiamento verso l’antico dei costruttori delle nuove chiese a Roma, tanto più se sono veri i significati simbolici che si sono voluti vedere in questo grandioso e dispendioso riutilizzo di fusti di porfido di Roma nella capitale dell’impero bizantino. Ma nel VI secolo la parabola di Roma è in netto contrasto con quanto avviene a Costantinopoli. È ormai abbandonato il Foro della Pace, la cui pavimentazione era rimasta in uso fino al momento dell’abbandono del tempio determinatosi forse per un incendio in conseguenza della caduta del fulmine, come ricordato da Procopio (Bell. Goth., 4,21), o per un generale stato di decadenza del complesso forense analogo a quello in cui versavano in epoca tardoantica anche gli altri Fori Imperiali. In ogni caso Costanzo II al momento della sua visita aveva trovato in buono stato il foro (Amm., 16,10,14), che inoltre era stato quasi subito restaurato dopo il terremoto del 408 (Simmaco, Epist., 10.78). Solo tra il 526 e il 530 l’aula meridionale fu occupata dalla chiesa dei SS.Cosma e Damiano, e poco dopo s’inserisce il racconto di Procopio sul suo stato di abbandono: va rilevato che tale rioccupazione ha permesso il conservarsi di parte delle murature antiche in opera quadrata, già viste da Ligorio e studiate in occasione di restauri degli anni ’50. Agli inizi del secolo successivo avviene la trasformazione in chiesa del grande Pantheon del Campo Marzio, ma ciò che c’interessa sottolineare è che nella seconda metà del VI secolo si deve essere registrato anche il parziale abbandono di alcune delle grande basiliche circiformi funerarie costantiniane, costruite nella periferia della città: da quella di S. Agnese abbiamo supposto provenissero molti degli elementi architettonici reimpiegati nella più piccola basilica di fine VI, inizio VII costruita nelle immediate vicinanze e connessa alle catacombe locali; la stessa ipotesi ci sembra di poter fare per S. Lorenzo f.l.m. in quanto molte delle sue trabeazioni sono chiaramente di epoca costantiniana e avrebbero potuto provenire della basilica circiforme che sorgeva nei pressi. In effetti, la basilica circiforme di San Lorenzo si differenzia dalle altre dello stesso tipo, in quanto possedeva non pilastri, ma colonne, con interasse di m 3,15. Se il Krautheimer ipotizzava che gli elementi antichi di questa fossero riutilizzati nella successiva basilica onoriana, in quanto riteneva che la circiforme fosse stata abbandonata nel IX dato la mancanza di notizie dopo questo secolo, tuttavia proprio il reimpiego di cornici e fregi-architrave costantiniani nella Pelagiana farebbero pensare che l’abbandono sia stato precedente. Abbiamo citato queste due chiese, S. Agnese f.m. e S. Lorenzo f.m., come esempi di possibile reimpiego da edifici vicini perché nel periodo bizantino la riduzione dell’abitato e anche delle dimensioni delle chiese ha avuto come conseguenza un cambio notevole nelle modalità di recuperare spoglie rispetto al IV-V secolo. Infatti dal VI a buona parte dell’VIII secolo la contrazione della città, spesso immaginata come un insieme di villaggi insediatisi su monumenti antichi ormai in rovina, determina il fatto che la spoliazione per le nuove chiese dell’epoca riguardi soprattutto gli antichi monumenti su cui esse sorgevano, e meno quelli più lontani, in quanto le difficoltà e le spese del trasporto non avrebbero reso possibile un approvvigionamento in altre zone della città. Tanto più inserite nei vecchi monumenti sono le abitazioni private: ricordiamo brevemente il caso della Basilica Emilia dove innanzitutto la caduta dei muri perimetrali era stato causato dal crollo dei colonnati interni, che era fatto risalire dal Bartoli non all’incendio degli inizi del V secolo, limitato al soffitto dell’aula e di cui resterebbero tracce di cenere sul pavimento, bensì ad un intervento di spoliazione dei marmi dell’aula interna (gli elementi marmorei apparivano spezzati non per caduta, ma per i colpi di mazza e i rocchi di colonna sono stati tutti portati alla stessa altezza). Ma su tre taberne della Basilica (verso il Tempio di Antonino e Faustina)
si trovano resti pavimentali di VII-IX secolo e aggiunte murarie anche più tarde, che ne attestano l’uso cristiano, mentre, sempre nell’area delle taberne fino a comprendere la crepidine della basilica, sarebbero stati rinvenuti i resti di una casa altomedievale, piuttosto grande, con muri formati da grossi blocchi di “tufo verdastro” e con una “rozza” scala che conduceva al piano superiore: vi era stato riutilizzato come soglia di una camera un blocco di marmo contenente parte dei fasti consolari più antichi e proveniente dalla vicina Regia. Va rilevato che dopo il VII secolo e per diversi secoli ancora, la giurisdizione sui resti monumentali antichi passa ormai nelle mani del Papato e il controllo e la legislazione relativa si indeboliscono dal momento che i papi stessi sfruttavano le rovine come meglio ritenevano. In effetti si era verificato un mutamento notevole nel governo, in quanto il Senato, che ormai aveva solo funzioni di rappresentanza, era stato sostituito nel 603 da un collegio di personaggi scelti tra le principali famiglie dell’Urbe e con un ruolo soltanto consultivo: la carica di praefectus urbi e del curator aquarum è ancora attestata fino agli inizi del VII secolo, mentre il curator Palatii è nominato ancora nel 687. Se continuava l’apparente ossequio della curia papale verso i funzionari assegnati dall’Esarca ravennate a governare la città, tuttavia fu inviato un nunzio permanente alla corte di Costantinopoli, anche per accelerare la convalida da parte dell’Imperatore dei nuovi pontefici. Che non dovesse essere vigente una legislazione che impedisse l’occupazione degli edifici antichi romani, lo prova il fatto che anzi si registra nel periodo altomedievale un’importante fase di riuso e trasformazione in chiave cristiana di aree non ancora occupate in tal senso, come quella presso l’antico porto tiberino: così S. Nicola in Carcere dove le epigrafi di Anastasius Maiordomus incise su una colonna attestano che la chiesa – allora dedicata ai santi Maria, Simeone, Anna e Lucia, fu costruita nell’VIII secolo sopra i tre templi del foro Olitorio; S. Maria del Portico che occupa il sito degli Horrea Aemiliana nell’VIII-IX secolo; S. Maria de Secundicerio che s’insedia nel Tempio di Portuno, e ancora nell’VIII secolo,
S. Angelo in Pescheria che s’inserisce nella porticus d’Ottavia. Ma si consuma nello stesso periodo l’occupazione cristiana dell’antico e più importante centro monumentale della città, il foro: infatti, nel VI e VII secolo comincia il grande periodo della trasformazione dei monumenti del Foro romano, che fino a tutto il V secolo era rimasto invece l’area privilegiata degli interventi di restauro imperiali e del praefectus urbi. Se ancora nel 608 era stata ridedicata, come si è visto, una colonna onoraria da parte dell’Imperatore Foca, pochi anni dopo, nel 625-38, addirittura il Senato fu trasformato dal papa Onorio I in una chiesa, quella di S. Adriano. In un periodo precedente al tardo VIII secolo, la chiesa di S. Martina era stata costruita nel Secretarium Senatus, mentre al VII secolo risale la diaconia dei SS. Sergio e Bacco vicino all’Arco di Settimio Severo: le diaconie, centri di assistenza ai bisognosi esemplati su strutture governative ormai fuori uso, erano amministrate da funzionari laici della curia, ma ispirate ai principi della carità cristiana: donde la presenza dell’oratorio annesso. Sempre nel VII secolo avvenne l’inserimento della Chiesa di S. Maria Antiqua nel vestibolo dei palazzi imperiali sul Palatino e ancora più significativo è il fatto che più tardi, nel 705-7, il papa Giovanni VII inserì una residenza papale proprio accanto a questa chiesa. È un primo annuncio di ciò che succederà con la crisi iconoclasta, nel 726, quando avviene il distacco definitivo della Chiesa da Bisanzio: allora i Papi iniziano a dotarsi di residenze e centri amministrativi, per far fronte ad un’esigenza di autonomia. I successori di Giovanni VII preferiranno tornare al Laterano, che meglio si prestava alle modifiche necessarie e proprio in quegli anni dovette essere lì collocata la statua equestre di Marco Aurelio, additato ai fedeli come Costantino (secondo il nuovo principio della interpretatio in chiave cristiana di molte antichità cittadine). È proprio il fenomeno dell’inserimento di chiese nei vetusti edifici del Foro che testimonia il potere raggiunto dai Papi e in un qualche modo il disinteresse, o comunque il cambiamento di atteggiamento e di mentalità, verso i monumenti-simbolo della potenza di Roma da parte degli Imperatori bizantini. In questa nuova situazione politica ed economica avvenne, dunque, la riappropriazione per nuove funzioni anche di antichi e prestigiosi edifici pubblici della piena età imperiale. Se continua la pratica del prelievo di spoglie dagli antichi edifici, tuttavia è soprattutto per alcuni casi eccezionali che essa si registra anche su monumenti lontani dal luogo di destinazione, quali le opere di fortificazione o le grandi basiliche apostoliche, che continuano a essere meta di pellegrinaggio e oggetto di restauri o altri interventi: a S. Pietro il rifacimento del tetto durante il pontificato di Onorio I (625-638) avviene tramite tegole di bronzo provenienti dal Templum Romae (cioè il tempio di Venere e Roma). Dopo la caduta di Gerusalemme nel 640, Roma venne ad essere l’unica città santa meta di pellegrinaggi cristiani, e ancor più motivata a custodire le sue memorie. Lo stesso Imperatore Costante II ebbe a visitarla nel 667 durante la sua spedizione contro i Longobardi, anche se in quell’occasione finì di rimuovere il bronzo ancora rimasto sugli edifici romani, comprese le tegole del Pantheon. Meno di un secolo (731-741) dopo la basilica di S. Pietro riceve dall’esarca Eutichio il dono di sei colonne tortili vitinee importate dall’Oriente e collocate da Gregorio III nel presbiterio, davanti alla “confessio”, in linea con le sei colonne più antiche: si tratta dell’ultima concessione ufficiale dell’Impero alla Chiesa. È con il IX secolo, in conseguenza dello sviluppo anche edilizio che investe la città, dovuto, come è noto, alle condizioni politiche favorevoli determinate dall’alleanza in funzione antilongobarda tra la monarchia franca e il papato – questo ormai ha assunto definitivamente il controllo della città –, che si verifica un importante cambiamento, tanto a riguardo dell’occu- pazione dei monumenti antichi, quanto a riguardo della loro spoliazione in quanto torna a comparire un processo di prelievo sistematico, che non riguarda più soltanto le zone vicine agli edifici da costruire o restaurare, ma anche campi di rovine più lontani. Innanzitutto, pur realizzandosi nel Foro sotto Leone IV (847-55) il primo grande edificio costruito integralmente – piuttosto che adattato – sin dall’età classica, cioè S. Maria Nuova, che occupò parte del tempio di Venere e Roma (anche se in gran parte il tempio restava in piedi, tanto da poter essere ancora spogliato nei secoli successivi), tuttavia l’area principale della città è ormai nell’ansa del Tevere presso il ponte che conduceva a S.Pietro, pur continuando a sussistere altri nuclei abitativi e pur iniziando l’espansione edilizia e urbanistica oltre i limiti dell’ansa stessa. Infatti in questo secolo si compie ormai l’occupazione a scopi abitativi degli edifici monumentali del Campo Marzio, dove era possibile l’inserimento di abitazioni quali appunto i teatri (di Marcello, di Pompeo, di Balbo), lo stadio di Domiziano, l’odeion di Domiziano, i cui ambulacri e vani voltati, sostruzione della cavea, diventano dimore per la popolazione, che farà riferimento al luogo in cui abita chiamandolo “cripte”. Certo è che questi edifici di spettacolo, prima oggetto solo di parziali spogliazioni, vengono ora sistematicamente saccheggiati dei loro marmi che servono alla decorazione delle chiese (v. oltre il caso di S. Prassede con spoglie del Teatro Marcello). Questo processo di occupazione del Campo Marzio è naturalmente dovuto al polo di attrazione costituito dal vicino Vaticano, subito sull’altra sponda del Tevere: il Campo Marzio doveva necessariamente essere attraversato dai pellegrini che entravano dalla parte nord di Roma e si dirigevano a S. Pietro. Ma la parte settentrionale del Campo Marzio diviene adesso oggetto di un’attenzione particolare proprio per ciò che riguarda il prelievo possiamo dire sistematico di marmi antichi, tanto da poterlo definire come uno dei campi privilegiati di rovine da spogliare. Tale osservazione emerge dalla circostanza che nelle chiese carolingie di IX secolo, dall’inizio alla fine, trovano impiego come sostegno nelle cornici esterne delle absidi, due gruppi numerosi di elementi architettonici, uno costituito da cassettoni decorati con maschere di acanto, il secondo da mensole rivestite di foglia di acanto, in entrambi i casi ritagliate da cornici di uno stesso monumento di età imperiale in modo da ottenere un altissimo numero di elementi decorati da potere riadattare al perimetro semicircolare delle absidi stesse. In particolare SS. Nereo e Achilleo e S. Martino ai Monti riutilizzano mensole abbinate a soffitti decorati con maschere d’acanto o con motivi vegetali, lo stesso probabilmente S. Prassede e i SS. Quattro Coronati, perché, se attualmente le cornici sono composte solo da mensole, in origine erano completate da lastre decorate con mascheroni, testimoniate da esemplari fuori opera nelle due chiese; S. Cecilia e S. Giorgio al Velabro sembrano invece progettate fin dall’inizio con l’utilizzo di sole mensole. Sei chiese, dunque, distribuite nel’arco di circa un cinquantennio, dall’età di Papa Leone III a quella di Leone IV, che sembrano poste su una medesima linea progettuale, al di là di altre evidenti differenze costruttive, e che sembrano aver usufruito di una comune fonte di materiali. Abbiamo rilevato in altra sede come l’analisi complessiva di tutti questi pezzi ci abbia indotto a ritenere possibile che essi provenissero da un recinto col muro di fondo articolato in nicchie su più piani, che abbiamo proposto d’individuare nel complesso del tempio del Sole di Aureliano, alla cui epoca rimandano lo stile e la tipologia dell’acanto e al cui particolare recinto absidato che circondava il tempio rinvia la possibilità di distinguere in base alle misure diversi gruppi di mensole e maschere di acanto: esse si adattano all’ipotesi ricostruttiva di un recinto con le pareti articolate su più ordini addossati. Ma l’importazione dell’operazione di reimpiego effettuata per queste chiese è che ora per la prima volta in modo sistematico e attento si assiste anche alla rilavorazione delle spoglie per dar maggiore coerenza e uniformità alla loro sistemazione. Con l’età carolingia diviene evidente un altro fenomeno che riguarda proprio le chiese: il reimpiego di elementi architettonici e altro provenienti da fasi più antiche delle stesse chiese. È quanto sembrerebbe emergere dall’osservazione che chiese come SS. Quattro Coronati, e più tardi S. Saba e S. Giovanni a Porta Latina, mostrano serie omogenee di capitelli ionici di tardo IV-primi decenni V secolo, per lo più risultanti dalla rifinitura avvenuta in epoca tardo antica di pezzi importati in stato di semilavorazione da cave di Taso e Proconneso, ma anche ottenuti dalla rilavorazione di blocchi di reimpiego in marmo lunense. Tale aspetto è particolarmente significativo in quanto condizionerà la rinascita dell’ordine ionico presso le officine cosmatesche tra XI e XII secolo. Ai SS. Quattro Coronati tali capitelli furono messi in opera nella fase di IX secolo, quando la chiesa ad opera di Leone IV (847-855), che già ne era stato il presbitero, raggiunse le sue massime dimensioni e a questa fase forse risale anche il reimpiego di diversi elementi di un fregio dorico prelevato dall’arco Partico del Foro Romano, ora visibili nella corte antistante alla chiesa di XI secolo, ridotta in seguito ai danneggiamenti subiti durante il sacco normanno del 1086. si tratta di un frammento di soffitto di cornice di ordine dorico che trova il corrispettivo in un pezzo uguale esposto nel chiostro. Ma nella cappella di S. Barbara, sempre della stessa basilica, sono stati reimpiegate quattro
trabeazioni sporgenti inserite diagonalmente ai quattro angoli e che erano sorrette da quattro colonne di verde antico, se ad esse si riferisce la notizia del trasporto al Vaticano di quattro colonne di questo materiale prelevate dalla basilica di Ss. Quattro Coronati. Di queste trabeazioni tre più la cornice della quarta sono attribuibili al tardo IV-primi decenni V secolo, in base alla forma dell’acanto dentellato, quale era venuto di moda a Costantinopoli in questo periodo, dove si trova un importante confronto con i propilei della S. Sofia teodosiana inaugurata nel 415, mentre la quarta trabeazione al IX secolo. Apparirebbe dunque una datazione simile a quella dei capitelli ionici e ciò non può non mettersi in relazione ai dati che hanno permesso di ricostruire l’esistenza di una fase ancora più antica della chiesa, già sicuramente esistente nel VI secolo (v. la partecipazione del presbitero della basilica Fortunatus al sinodo del 595) e forse da identificare col titulus Aemiliane, presente nell’elenco dei tituli che aderirono al sinodo del 499. Una particolare situazione è offerta da S. Prassede: infatti recenti lavori di pulizia hanno riportato alla luce le iscrizioni, che in parte erano state già viste nel XV secolo, sugli architravi sorretti dalle colonne delle navate, che fanno riferimento a importanti cariche del V secolo. Si tratta di 28 elementi di architravi, sia lisci, sia decorati, inclusi anche quelli posti nel passaggio dalla navata al transetto originario. Nella navata laterale sinistra tra la sesta colonna e il quarto pilastro vi è un architrave liscio (alt. mass. 0,50 m, largh. 2,37 m, spess.0,50 m), sulla cui prima fascia si legge [[VRBI]] CVRANTIBV[…], riconducibile ad un praefectus urbi, che subì la damnatio memoriae,, in quanto VRBI risulta eraso; tra il terzo pilastro e la quinta colonna si legge sulla prima e la seconda fascia dell’architrave (alt. mass. 0,50 m, largh. 2,30 m, spess.0,50 m) […]LV- STRIS EX PRIMICERIO NOTARIORVM SACRI P[…] /[…]QVALO- RIBVS PORTICVM A FVNDAMEN[…], iscrizione già nota in parte da un manoscritto medievale (CIL VI, 1790), che la situava falsamente nella Cappella di S. Zenone, dove la datazione tra il IV e forse meglio V secolo d.C. emerge dalla menzione della carica del primicerius notariorum sacri palatii, il capo del collegio notarile papale, una carica nota dal IV secolo in poi ad imitazione della burocrazia imperiale; nel passaggio dalla navata laterale destra al transetto, oggi Cappella del Crocifisso, tra la colonna centrale e il pilastro di destra, sulla prima fascia dell’architrave (largh. 2 m, spess. 0, 50 m) si ha […]IVS FELIX AVG REFECERVN[…], con la possibile integrazione [P]IVS FELIX che questa volta rimanderebbe ad un edificio fatto ricostruire (refecerunt) da Settimio Severo e Caracalla, a cui è pertinente la titolatura imperiale. Evidentemente il primo monumento per cui furono scolpiti gli architravi, era opera degli imperatori severiani: questo fu poi restaurato e ridedicato in epoca tarda e in esso s’insedia o meglio da esso furono prelevati gli architravi per metterli in opera a S.Prassede, che , ricordiamo, esisteva già almeno dalla fine del V secolo, quando viene menzionato un titulus omonimo (ICUR VII, 19991). Questi architravi, di nuovo iscritti tra IV e V secolo, possono essere messi in collegamento con alcuni capitelli corinzi ad acanto dentellato databili tra il tardo IV e i primi decenni del V secolo, di nuovo reimpiegati nella stessa chiesa, ricostruita integralmente, come è ben testimoniato, da Pasquale I (817-824), che tuttavia può aver riutilizzato anche i resti marmorei della fase precedente. Infine possiamo notare che le otto colonne di acanto che attualmente decorano l’abside cinquecentesca di S. Prassede, ma che dovevano far parte già della fase carolingia della chiesa, trovano confronto uguale con una base di acanto rinvenuta nel teatro di Marcello, che ebbe una fase severiana, oltre a tardi restauri. Per capire i mutamenti del rapporto con le sue rovine da parte della Roma carolingia, caratterizzata, come si è detto, da una forte ripresa edilizia e urbanistica, va rilevato l’aumento in notevole misura che si verifica nella seconda metà dell’VIII e soprattutto nel IX secolo del reimpiego di blocchi di tufo antichi di grandi dimensioni. Per il loro minore peso e facilità di trasporto vengono preferiti ai più pesanti blocchi di travertino e di marmo quando si debbano utilizzare in parti strutturali di rafforzamento della muratura, nel livellamento di piani di fondazione o di terrazzamento: essi vengono messi in opera, senza subire ulteriori modificazioni rispetto alla forma originaria del blocco, in un irregolare e poco accurato opus quadratum all’interno del quale si creano numerosi interstizi riempiti con zeppe di mattoni e che, quando usato in fondazione, spesso sporge notevolmente dal filo del muro. Solo quando i blocchi sono usati nell’elevato essi si dispongono con maggiore regolarità, ma in tali casi non implicano necessariamente una coerenza nella struttura muraria, perché spesse si accompagnano a cortine nell’VIII secolo miste di laterizi e tufelli, nel IX prevalentemente di laterizi, in entrambi i casi sempre di reimpiego e con irregolarità nella tessitura. L’aumento piuttosto forte di attività di recupero di blocchi, tufelli e laterizi in questo periodo è il segno dell’aumento della popolazione e della ripresa edilizia che caratterizza Roma tra l’VIII e il IX secolo, come hanno mostrato i recenti scavi nell’area dei fori: essi hanno restituito case con portici datate al IX secolo ad esempio nel Foro di Nerva, costruiti in blocchi di peperino e laterizi di inzeppo prelevati dai monumenti dell’area. Diamo un breve elenco delle chiese in cui si verifica il reimpiego di blocchi perché molte di esse sono le stesse interessate al fenomeno del reimpiego di “maschere d’acanto” che abbiamo visto nei paragrafi precedenti. Vanno citate innanzi tutto muri di fondazione in blocchi nelle chiese promosse o restaurate da Leone III (795-816), quali SS. Nereo e Achilleo, S. Stefano degli Abissini, S. Susanna, S. Anastasia che sotto questo papa subì la tamponatura degli archi della navata destra con grossi blocchi. Il Liber Pontificalis assegna a questo papa anche la costruzione di S. Pellegrino in Naumachia in cui le fondazioni sono realizzate in grandi blocchi di travertino probabilmente prelevati dallo Stadio di Domiziano. Citiamo ancora
S. Martino ai Monti, con la fondazione in blocchi ben visibile sul fianco nord: questa chiesa, inoltre, rientrerebbe nella casistica delle chiese che sfrutterebbero come luogo di raccolta delle spoglie i monumenti vicini, se è vero, come è stato ipotizzato, che la serie omogenea di capitelli corinzi asiatici nelle colonne tra le sue navate provengano dalle Terme di Traiano. Tale reimpiego di blocchi indicherebbe come le tecniche cantieristiche progrediscono notevolmente proprio in questi secoli, tanto da consentire, evidentemente con l’uso di argani, la spoliazione sistematica di grandi complessi romani costruiti in opera quadrata, di cui si hanno importanti indizi anche sui moli e le banchine sul Tevere costruiti con materiali di spoglio. Insomma, sono l’VIII e soprattutto il IX secolo, che segnano l’inversione di tendenza rispetto ai secoli immediatamente precedenti, che riguarda un’occupazione della città estensiva e non più a macchia di leopardo: i quartieri tendono ad essere ampi e omogenei ed escono dunque dallo spazio ristretto dell’ansa del Tevere in Campo Marzio,in corrispondenza delle strade e dei ponti che conducevano a S. Pietro. Al di fuori di quest’area cominciano così a registrarsi case in muratura, dotate anche di portici, come mostrano le domus recentemente ritrovate sugli strati di riempimento medievale del foro di Nerva. Si preannuncia così l’espansione edilizia che avverrà tra XI e XIII secolo, che vede la città nuovamente ricompattarsi in quartieri senza soluzione di continuità. Con la fine della lotta per le investiture e la vittoria del papato sull’Impero si verificano alcuni importanti fenomeni che segnano in modo notevole la pratica del reimpiego: il ritorno a basiliche di grandi dimensioni che vogliono riproporre il modello paleocristiano, rievocato anche dall’uso delle trabeazioni orizzontali, come nella basilica lateranense e a S. Pietro; la costituzione di grandi officine specializzate nella spoliazione e nella rilavorazione dei marmi antichi e con un’attività non limitata soltanto a Roma ma all’Italia e anche in Europa, l’inclusione anche di Ostia e Porto tra le cave di marmi da cui erano prelevate le spoglie da riutilizzare non solo a Roma (in precedenza è solo a S. Paolo che è attestato con sicurezza l’uso di spoglie da Ostia). Il fenomeno dunque dell’espansione del mercato del marmo determina un nuovo assalto ai monumenti ancora superstiti, consentito di nuovo dai progressi tecnici in campo edilizio che avevano permesso l’erezione delle grandi bailiche romaniche (basti citare il caso del Duomo di Pisa). Viene così raggiunta l’area delle grandiose terme di Caracalla, che cominciano ad essere progressivamente spogliate proprio a partire dall’XI secolo: ne danno testimonianza otto capitelli ionici figurati, le basi decorate e le colonne in granito reimpiegate nella basilica di S. Maria in Trastevere, ma anche i numerosi capitelli riconosciuti come provenienti dalle terme nel Duomo di Pisa. Il materiale di questo Duomo ci testimonia anche il riutilizzo di elementi architettonici dalle terme di Nettuno nel Campo Marzio, dal teatro e altri monumenti di Ostia, e da questa città portuale provengono numerosi pezzi reimpiegati, compresi sarcofagi e urne, reimpiegati a Salerno e Amalfi. Marmi romani raggiungono anche la Sicilia normanna, da cui provengono grandi tamburi di porfido destinati a sarcofagi reali, prima destinati alla chiesa di Cefalù e ora nel duomo di Palermo, e da cui provengono molto probabilmente le grandi colonne tra le navate con capitelli figurati con protomi di divinità femminili utilizzati come sostegni tra le navate del duomo di Monreale e di cui è da ammirare l’opera di trasporto dall’area portuale di Palermo alla cima del monte su cui sorgeva Monreale. Non è comunque facile seguire il percorso seguito dalle attività degli spogliatori soprattutto in periodo come quello carolingio e romanico dove l’urgenza di riutilizzare pezzi antichi moltiplica le ricerche in più direzioni. Sulla presa di mira di una determinata regio, talvolta si possono avere indizi dal riutilizzo in chiese vicine topograficamente di fusti uguali di colonne, come è il caso per il Celio dei SS. Giovanni e Paolo di V secolo, ma con i fusti della navata risistemati nella fase romanica, di S. Maria in Domnica di IX secolo, ugualmente con interventi cosmateschi all’interno e dei SS. Quattro Coronati nella ricostruzione di XII, dove i fusti sono certamente più piccoli di quelli della fase carolingia: le altezze dei fusti e i loro diametri inferiori sono praticamente identici (le altezze medie dei fusti oscillano tra i 4,11 e i 4,13 metri e i diametri tra i 53 e i 55 centimetri). Ne è nata l’ipotesi della presenza nell’area di un unico monumento da cui sono state tratte spoglie e si può ricordare che lungo l’attuale Via della Navicella sorgeva la sede piuttosto monumentale e notevolmente estesa della V Coorte dei Vigili, di cui strutture sono state rinvenute anche sotto S. Maria in Domnica e nella quale probabilmente vi erano cortili a peristilio e aule di culto imperiale colonnate (basti pensare alla più modesta Caserma dei Vigili a Ostia) e non lontano vi erano i Castra Peregrina a est di S. Stefano Rotondo ugualmente di grande estensione, che sembrano già in declino dopo il sacco di Alarico Infine vanno menzionate le ipotesi erudite di provenienza nei manuali sui marmi dell’800: il Corsi ad esempio attribuiva al Palazzo di Plauzio Laterano due grandi fusti in porfido rosso del Battistero Lateranense, al Foro Traiano due fusti scanalati in giallo antico della navata Clementina a S. Giovanni in Laterano, e quindi non della fase originaria della basilica, lo stesso le due di sienite trovate presso S. Croce in Gerusalemme e reimpiegate ancora nella navata Clementina, i due fusti di verde antico detti provenire dall’“Arco di Marco Aurelio”, che furono riutilizzate nella prima cappella a sinistra insieme ad un’urna di porfido trovata nel 1443 nel Pantheon. A S.Maria Maggiore le quattro colonne di granito grigio e le 24 in imezio (in realtà tasio di Aliki) proverrebbero dal “Tempio di Giunone Lucina”, mentre al Tempio di Giunone Regina sarebbero attribuite le 24 colonne rudentate in imezio (in realtà proconnesio) di S. Sabina.
A S.Anastasia sette fusti di pavonazzetto sarebbero stati trovati nell’area della chiesa e apparterrebbero al Tempio di Nettuno. A S. Maria in Cosmedin le otto colonne scanalate in marmo imezio inserite nella parete apparterrebbero al Tempio della Pudicizia, ma in realta abbiamo visto facevano parte di un’aula porticata tardo antica rinvenuta sotto la chiesa e già costruita con colonne di reimpiego. È comunque un indizio che le due colonne di verde antico della cappella Corsini al Laterano, credute provenienti dalla spoliazione dell’arco di Portogallo, decorato sotto Marco Aurelio, abbiano le stesse misure standard di tutte le altre colonne della basilica, inducendo alcuni autori ad individuare per quest’ultima un riutilizzo da un edificio di II secolo di carattere privato, consideratene anche le modeste altezze. D’altronde però, una tale ricchezza di questa qualità di marmo, scarsamente diffuso in Roma con simile omogeneità di dimensioni, non è riscontrabile in nessun altro edificio cristiano costantiniano e lascia ipotizzare una diretta committenza del IV secolo forse dallo sfruttamento del grosso magazzino che Massenzio raccolse nei sei anni di attività edilizia in Roma, materiale destinato a qualche costruzione di carattere monumentale, fornita di grandi peristili. L’alternativa è così tra un riutilizzo di materiale di II secolo e l’uso di una committenza di poco anteriore a Costantino.
“Lasciamo in pace i Barbari! I danni che essi hanno fatto a Roma sono trascurabili in confronto ai danni fatti da altri.
E per “altri” intendo i Romani stessi, i Romani dei periodi imperiale e bizantino, del Medioevo e del Rinascimento,
e anche dopo.” (R. Lanciani)